Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente

Trattato sulle virtù teologali


INTRODUZIONE

1. Il progetto di Dio sull’uomo. Uomo creato perché la bontà di Dio ha voluto che altri esseri partecipassero delle sue perfezioni (motivazione razionale) e perché diventi per grazia ciò che il Figlio di Dio è per natura e cioè figlio di adozione (Ef 1,3-6; Gv 1,12). Ma “figli di Dio” non lo si nasce, lo si diventa e quindi alcuni possono anche non diventarlo!
2. La vita di grazia. Questo progetto è rimasto immutato anche in seguito al p.o. permesso nella prospettiva della Redenzione operata da Gesù sulla croce. Egli in seguito alla sua Risurrezione dona per altro ai “suoi” la sua vita santa e divina che viene anche chiamata grazia (Ef 1,6) o figliolanza divina (Gv 1,12). Essa non è una pura benevolenza esterna, ma una realtà soprannaturale che inerisce ontologicamente nell’anima e trasforma interiormente l’uomo rendendolo da ingiusto che era giusto, da nemico amico, da perccatore santo (cf DS 1529). E siccome l’uomo non è sufficiente a se stesso, perché la creatura senza il Creatore svanisce (cf GS 36) e come dice san Tommaso d’Aquino:«solo Dio sazia, e tutto ciò che è meno di Dio non sazia», la partecipazione alla vita di Dio non solo non è estranea all’uomo, ma è l’unica addirittura consona e pienamente soddisfacente: solo in Cristo l’uomo riceve la vita eterna e la riceve in abbondanza (cf Gv 10,10) e con essa anche luce sulla sua vita perché:«solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo» (GS 22) ed in particolare lo:«enigma del dolore e della morte che al di fuori del Vangelo ci opprime» (GS 22). Solo il cristiano dice che Dio ci ha creati per renderci per grazia ciò che il Figlio è per natura: è un po’ come il ferro quando è buttato nel fuoco che diventa incandescente, ma se tolto da esso perde questa incandescenza. Il germe di vita divina che viene posto in noi in via ordinaria con il Battesimo è proprio la grazia che, essendo in germe, va aiutato a crescere. Dio ama quindi tutti come Padre, ma sono figli di Dio solo coloro che lo accolgono e su chi l’abbia accolto e chi no, non sta a noi dirlo!
3. Esistenza delle virtù teologali. La grazia è quindi il centro della vita cristiana, ma questo germe di vita divina per crescere ha bisogno di energie divine: i figli di Dio sono quindi provvisti di quello che si chiama comunemente organismo soprannaturale e che è costituito dalla grazia santificante, dalle virtù teologali e quelle morali infuse, e dai doni dello Spirito Santo dove la prima è come la radice e le altre sono i rami. Se la grazia conferisce una vitalità spirituale, mettendo in grado di compiere azioni ordinate al fine della vita eterna, essa però non opera direttamente, ma attraverso le virtù, così come l’anima non agisce da se stessa, ma attraverso le sue facoltà (intelligenza e volontà per Tommaso e in più memoria per Agostino). E queste virtù sono elargite da Dio, come la grazia, e ci aiutano a vivere della vita di Dio nel modo di pensare (fede), di amare (carità) e con la sua forza (speranza) e proprio per questo sono dette virtù teologali. (cf CCC 1813 e CoCCC 384). L’esistenza delle virtù teologali traspare molto bene dalla Scrittura, anche se non sono chiamate così visto che questo nome è medioevale, tanto che si parla di una catechesi che verta su di esse nella prima comunità apostolica ed infatti la 1 Ts apre proprio con un rendimento di grazie che le cita tutte e tre abbinando ad esse anche un particolare dinamismo (l’, l’opera, della fede; il , la fatica, della carità e la , la feremezza, della speranza) ed esse tornano sovente negli scritti paolini! Le tre virtù teologali sono quindi la decisiva chiave ermeneutica dell’annucio neotestamentario, la patristica farà consistere in esse lo specifico dell’etica cristiana, il Medioevo le farà oggetto di trattazione sistematica , il Concilio di Trento ne definisce, anche se non dogamticamente, l’esistenza e la distinzione (DS1530) ed il CCC dice in maniera assertoria che:«Tre sono le virtù teologali: la fede, la speranza e la carità» (CCC 1813). Se nei Vangeli (soprattuto nei Sinottici) quindi la risposta dell’uomo è chiamata semplicemente fede, la distinzione delle virtù teologali in Paolo ed in tutte le lettere è evidentissima ed il Concilio di Trento ribadirà che si può avere la fede senza avere la carità o la speranza (DS 1531)! Molti oggi dicono che il termine usato per indicare la triade non vada bene è utile quindi vedere perché si dicono virtù teologali: esse non sono qualcosa di statico, come potrebbe lasciar intendere la traduzione usurata dal tempo, ma significano “forze divine” e poi l’uso di questo termine classico, come ha sempre fatto il Magistero e non ultimo il CCC, è valido per tre motivi:
a. sottolineano bene la loro origine divina e differiscono dalle virtù morali infuse perché sono una partecipazione di ciò che è esclusivamente di Dio;
b. hanno Dio come oggetto (formale quod) e come motivo immediato (formale quo) perché la fede crede propter Deum revelantem, la speranza cerca propter ipsum auxiliantem e la carità ama Dio propter ipsum amabilem;
c. hanno un fine soprannaturale e cioè mantenere l’uomo in comunione con Dio.
Gli atti di religione invece (preghiera, sacramenti ecc.) non sono teologali, perché sono mezzi con cui attingiamo a Dio e non dei fini, tanto che dall’esercizio di questi atti si può essere dispensati, ma dall’esercizio delle virtù teologali no!
NOCCIOLO DEL CORSO
Primo scopo delle virtù teologali non è quindi quello di fornire all’uomo un’attrezzatura morale adeguata al compito che deve svolgere nel mondo, ma l’apertura del dialogo tra Dio e l’uomo, unione che viene potenziata dai doni dello Spirito Santo, sfocia nelle beatitudini  e nei frutti, e si irradia nelle virtù morali orientandone tutto il movimento: l’unione con Dio diventa così il contesto, la sorgente ed il vertice della perfezione umana, intendendo quest’ultima non in senso stoico, ma cristiano. San Tommaso sintetizzando la tradizione patristica dice che le virtù hanno in noi il loro principio di azione, mentre i doni, o gli spiriti, dello Spirito Santo ci dispongono a ricevere le sue mozioni: è un po’ la differenza che c’è tra guidare una barca con i remi (virtù) o montando una tenda (doni) che ci permette di essere trascinati dal vento. Più aumenta la carità e più aumenta in noi l’effetto dei doni dello Spirito Santo facendo parallelamente diminuire il peso del giogo e: 
Se si corrisponde fedelmente alla mozione divina dei doni si compiono degli atti soprannaturali così perfetti che i teologi chiamano beatitudini, che costituiscono il punto culminante della vita cristiana sulla terra e sono preludio della beatitudine eterna, tanto che i doni dello Spirito Santo continueranno ad esserci anche in Paradiso!
Quando l’esercizio delle virtù è maturo produce in noi certe operazioni terminali e piacevoli che provengono in noi dallo Spirito Santo e sono chiamati frutti citati in Gal 5,22-23 (volg.).
Il primo passo dove si citano questi doni è Is 11,2 dove sono certamente riferiti al messia e quindi  a Cristo, ma siccome noi siamo chiamati a diventare per grazia ciò che Gesù è per natura, si posano anche su di noi per partecipazione e li riceviamo con la grazia.

LA FEDE
CHE COS’È LA FEDE SECONDO LA SACRA SCRITTURA
Prima di procedere è utile subito dissipare un linguaggio perché con il termine corrente di fede si intende sia il senso greco del termine che quello ebraico: per il primo indica una conoscenza di scarso valore perché ha come oggetto di conoscenza la doxa, l’opinione; per il secondo si intende affermare qualcosa di cui si è più che certi, perché la fonte di questa conoscenza viene da Dio. Noi parleremo di fede in questo secondo senso ed il fondamento di questo atteggiamento la Bibbia lo vede nella figura di Abramo, padre di tutti i credenti. 
La fede di Abramo
La storia di Abramo si suddivide in quattro momenti:
1. La chiamata da parte di Dio ad uscire dalla propria terra (Gn 12). La vicenda di quest’uomo (come la stessa creazione per altro!) inizia con una parola di Dio (Gn 12,1ss), parola che invita Abramo ad andare in un posto che per il momento gli è ignoto, ma sul come Dio abbia parlato ad Abramo non si dice niente. Questa parola è efficace e provoca ciò che dice facendo fare il primo atto di fede ad Abramo. Appena arrivato nella terra che Dio promette alla sua discendenza (Gn 12,7) ecco che una carestia lo obbliga ad andare in Egitto. Tornato deve combattere una guerra contro quattro re, da cui esce vittorioso.
2. Lo scoraggiamento (Gn 15). Sebbene Dio gli abbia appena rinnovato promessa egli mostra un tentennamento facendo notare che sua moglie Sara è sterile (Gn 15,2) e Dio rinnova la promessa ed Abramo che:«credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia» (Gn 15,4-6). Qui appaiono per la prima volta il termine “credere” che viene subito mostrato in abbinamento a quello di “giustizia”: egli crede che nulla è impossibile a dio e la sua fede “permette” a Dio di esplicare la sua onnipotenza.
3. L’episodio di Mamre (Gn 18). All’incredulità di Sara fa risalto quella di Abramo che ospitando i tre è convinto di ospitare Dio, tanto che li chiama:«mio Signore» (Gn 18,3) e la sua fede è quindi qui accompagnata dalle opere.
4. Il sacrificio di Isacco (Gn 22). Qui la fede di Abramo raggiunge il suo apice: Dio gli chiede di offrire il suo figlio in olocausto in un posto che gli mostrerà (c’è il futuro come nella prima chiamata). L’olocausto era considerato dagli ebrei il sacrificio più perfetto perché in essa la vittima veniva interamente bruciata, interamente offerta a Dio e quindi con questo sacrificio Dio vuol vedere se Abramo ha capito che Isacco, e con esso tutta la sua vita, appartiene interamente a Dio. E che Abramo creda che Isacco non morirà emerge da ciò che dice ai servi:«…ritorneremo da voi» (Gn 22,5) e ad Isacco:«Dio stesso provvederà l’agnello per l’olocausto» (Gn 22,8) dove si vede come egli crede che la promessa di Dio si realizzerà, anche se lui ora non vede come: il senso del racconto è infatti tutto compreso nel nome, “il Signore provvede” (Gn 22,14), che Abramo dà al monte. 
La vicenda di Abramo ci illumina su quali siano i passaggi della fede:
1. … è frutto di un’iniziativa divina, di una chiamata, che toglie dal cuore il masso che impedisce di credere e che porta (in maniera ordinaria o eclatante) a “trovarsi a credere” che sono tutti indice di un’azione dell’uomo non attiva, ma causativa, causata cioè da un’azione di un altro che in ebraico è ben indicata dal verbo “hemin” e che in italiano troa un parallelo nell’uso che i meridionali fanno del verbo imparare … «Chi ti ha imparato queste cose?». 
2. … è purificata dalle prove che, se ben accolte, aiutano a radicarsi maggiormente in Dio, ad essere maggiormente unito a Lui. Mai come in quei momenti si avverte che solo Lui è il nostro Salvatore, come dice Santa Teresina infatti:«Dopo la prova quale ricompensa! L’acqua si cambia in vino, Lazzato risuscita!» questa fedeltà e quest’integrità aprono quindi del tutto la persona all’azione dell’onnipotenza divina. Insomma solo in questi momenti vissuti con Dio, si capisce che si è lieti solo quando si è crocifissi.
3. … è viva se accompagnata dalle opere che permettono di diventare “amici di Dio” che è la dignità più alta alla quale un uomo possa essere chiamato! 
4. … porta a separarsi oltre che dal proprio passato anche dal proprio avvenire e quindi aver fede non significa sapere che Dio c’è, perché questo lo sanno anche i demoni (Gc 2,19), ma significa piuttosto fidarsi di Dio, obbedirgli, abbandonarsi alla sua azione salvatrice: la fede apre dunque l’uomo a Dio che vuole donargli la sua stessa vita e giustifica così l’uomo, perché lo sottomette all’attività di Dio.
Tutto questo si può quindi sintetizzare nella fede in Dio Creatore e Provvidente, che si può già avere a partire dal piano della creazione, e nei suoi profeti in particolare in Gesù Cristo e nei suoi apostoli, la cui predicazione è comunicazione della salvezza da Lui annunciata e realizzata. 
Rimane però il fatto che di fronte alla predicazione molti rimangono increduli e ci si domanda quindi perché alcuni non credono. Va detto innanzitutto che lasciato alle sue forze l’uomo non è in grado di comprendere le realtà divine e quindi se Dio non illumina interiormente seducendo l’anima ed orientandola a sé una persona non può credere! Detto ciò molte sono le cause per cui alcuni non credono alla parola annunciata e sono: quelle enunciate nella parabola del seminatore, ma in fondo la prima è la non consapevolezza di essere insufficienti a sé stessi; il non essere di Dio; il risultato di deficienze morali gravi che corrompono il giudizio di coscienza e finiscono:«col rivolgersi contro l'uomo stesso con un'oscura e potente forza di distruzione» (RP 17) e portano così a giustificare il proprio operato peccaminoso; non ultimi il mancato oppure il cattivo annuncio o la cattiva testimonianza resa dai credenti o la loro incapacità di confessare la fede.

I VARI APPROCCI PER DEFINIRE LA FEDE (grazie all’opera di A. Dulles)
Il modello proposizionale vede nella fede un assenso a verità rivelate, espresse sotto forma di proposizioni, basato sull’autorità di Dio rivelante. Fondamento biblico di questo modello, che insiste sulla trasmissione del deposito della fede, è nelle lettere cattoliche e pastorali; nei padri si trova in Ireneo e Tertulliano; nel Medioevo è propugnato dagli scotisti e dai nominalisti; nell’epoca moderna è molto accentuato al tempo del razionalismo illuministico; oggigiorno continua a sopravvivere nell’evangelismo conservatore e nella neoscolastica cattolica. È presente poi in molti documenti del Magistero soprattutto di fine ‘800 ed inizio ‘900. Limite di questo modello è il rischio di ridurre la fede ad accettazione di verità rivelate intese come dottrine.
Il modello trascendentale vede la fede come una luce e una grazia che operano anche nelle persone che non hanno mai udito il messaggio biblico e che, liberamente accettato, dirige verso Dio, unico oggetto di desiderio e amore, e conduce a pensare e a giudicare secondo un determinato orientamento, ad avere cioè una fede “trascendentale” che se trova credibile l’annuncio del vangelo culmina nella accettazione della parola esteriore della rivelazione, la rivelazione “categoriale”. È insomma un nuovo orizzonte di conoscenza donato da Dio che permette di percepire ed assentire a verità che altrimenti non sarebbero accettate. Questa concezione si aggancia al concetto tradizionale di lumen fidei e a quello scolastico di fides qua creditur, per cui l’atto di fede è in grado di compierlo solo chi possiede l’habitus fidei ed è stato rimesso in voga nel XX secolo dal gesuita Pierre Rousselot seguito dai suoi confratelli K. Rahner e B. Lonergan. Limite di questo modello è la tensione con la concezione biblica-tradizionale che vede la fede come risposta all’annuncio (Rm 10,7) e il non avere chiarito se la Trinità e l’Incarnazione sono materia di fede o solo “credenze”.
Il modello fiduciale che assimila la fede alla fiducia e trova un fondamento biblico in Abramo, nei salmi, nella predicazione profetica e pure nel Nuovo Testamento. Tra i Padri l’unico che sembra sensibile a questa impostazione è Origene; la scolastica attribuisce l’aspetto fiduciale alla speranza mentre Lutero dividendo distinguendo tra fede come adesione intellettuale e fede-fiducia dice che basta solo la seconda per la salvezza; oggigiorno questa impostazione sopravvive in parecchia teologia luterana e riformata tra cui spiccano Pannenberge e Moltmann. Limite di questo modello è la tendenza a negare che un fermo assenso alla verità rivelata costituisca un atto di fede.
Il modello affettivo-esperienziale che sottolinea la componente affettiva e la stretta connessione esistente tra fede ed esperienza. Fondata biblicamente negli scritti paolini e giovannei trova esponenti: nell’epoca patristica in Dionigi e Massimo il Confessore; nel Medioevo negli esponenti della teologia monastica, della scuola di San Vittore e in alcuni di quella francescana; nell’epoca romantica in Schleiermacher e nei protestanti Harnack e Sabatier; nei contemporanei in Schillebeeckx. Limite di questo modello è che l’immediatezza dell’esperienza sia concepita come un sostituto della mediazione autoritativa del contenuto di fede quale si è espressa nella Scrittura, nella Tradizione e nella Chiesa: si rischia di cadere insomma in un empirismo individualistico che mina il carattere sociale ed ecclesiale della fede.
Il modello obbedienziale che coglie cioè come suo elemento essenziale lo specifico della obbedienza, di cui parla ripetutamente san Paolo, e che non è semplice esecuzione dei comandi, ma ascolto e accettazione umile e riverente di Dio nel quale quindi l’unica azione dell’uomo è recettiva. Questa tendenza è rappresentata nella teologia cattolica da Scheeben, ma è soprattutto nel mondo protestante contemporaneo che ha trovato sostenitori: Barrth, Bultmann e Bonhoeffer. Nell’uso di questo modello si deve solo vigilare perché la sovranità di Dio non venga intesa a scapito della libertà e dell’iniziativa umana.
Il modello della prassi tipico della teologia della liberazione sviluppatasi nell’America Latina nella seconda metà del XX secolo, dove il termine “prassi” viene desunto dal marxismo e indica le attività umane dirette a superare le alienazioni presenti nella società attuale. Basata sulla predicazione profetica, sui Sinottici e sull’importanza delle opere di cui parlano Paolo e Giacomo sottolinea come la fede non sia solo una faccenda individuale ed interiore, ma è un impegno ad essere “fedele” agli scopi di Dio nella storia sradicando l’ingiustizia. Esponenti di spicco di questo modello sono Metz e Gutierrez. Limite di questo modello è che la fede come adesione interiore è possibile anche senza la personale partecipazione al cambiamento della società ed ulteriori difficoltà sorgono quando questo impegno sociale è inteso nei termini di un’analisi sociale di tipo marxista.
Il modello personalistico che vede la fede come relazione personale con Dio che conferisce una nuova modalità di vita all’esistenza. Esponenti principali di questo modello appartengono alla teologia cattolica contemporanea e sono Blondel, Moroux, De Lubac e von Balthasar. Questo modello ha il pregio di superare la frammentazione che può sorgere nel definire la fede nei termini di speciali facoltà o funzioni, ma rimane lecito chiedersi se i vari aspetti di questa relazione globale non debbano ricevere nomi differenti come faceva la scolastica con le sue distinzioni che facilitavano la trattazione di questioni reali che emergono nel corso della riflessione e dell’analisi.
Optare per uno di questi modelli e assolutizzarlo è un pericolo che non si deve correre ecco perché occorre mettere i modelli in dialogo. Di comune a tutti c’è che ognuno di essi è consapevole che Dio è all’origine della fede e mostra in quale modo agisca e così Egli:
nel modello proposizionale è il maestro;
nel modello trascendentale è la luce che illumina;
nel modello fiduciale è il benefattore misericordioso e fedele;
nel modello affettivo-esperienziale è l’amore che tocca il cuore di quanti lo cercano;
nel modello obbedienziale è il sovrano;
nel modello della prassi è il liberatore;
nel modello personalistico è la fonte della vita.
Tenendo presente di tutti questi aspetti, che mettono in luce caratteristiche diverse della fede senza le quali essa sarebbe mutilata od imperfetta, e facendo dialogare questi modelli che sono complementari e non contraddittori e quindi si devono completare e criticare reciprocamente, Dulles definisce la fede come:«atto o disposizione fondamentale con cui l’essere umano risponde alla rivelazione ed entra in una relazione salvifica con Dio», che trasforma cioè il credente dall’interno, lo orienta in maniera nuova a Dio creatore, salvatore e fine ultimo della sua esistenza, lo rende persona alleata della Verità, fiduciosa, obbediente ed impegnata socialmente. 

DEFINIZIONI DELLA FEDE
Anche il Magistero ha definito variamente la fede ponendo l’accento ora più sulla “fides quae creditur” e quindi sul suo aspetto intellettivo (Concilio Vaticano I) ora più su quello volitivo e quindi sulla “fides qua creditur” (Concilio Vaticano II)
La definizione del Concilio Vaticano I
«La fede è quella virtù soprannaturale per la quale, con l’ispirazione e l’aiuto della grazia di Dio, crediamo vero ciò che egli ha rivelato, non per l’intrinseca evidenza delle cose colta attraverso il lume naturale della ragione, ma per l’autorità di Dio stesso che si rivela, il quale non può ingannarsi né ingannare» (DS 3008) Note alla definizione: 
lo schema sotteso vede Dio che muove la volontà dell’uomo (che accetta liberamente questa mozione) per far aderire l’intelletto a Lui ed alle sue verità;
la fede è vista come un dono per accedere alle realtà soprannaturali che è detto comunemente “lumen fidei” perché come per guardare il sole ed anche il suo riverbero ho bisogno di lenti speciali tanto più per Dio “sole dell’anima”;
va notato poi che la fede, il “lumen fidei”, sarà sostituito in paradiso dalla visio beatifica, il “lumen gloriae”, che alcuni hanno avuto per brevi periodi anche in vita (Mosè, san Paolo ecc.) e qui si inserisce anche la problematica se Gesù avesse la fede o la visio beatifica, ma in questo senso se quest’ultima ce l’hanno avuta per un breve periodo alcuni santi perché Gesù non ce la poteva avere perennemente essendo Lui il Figlio di Dio? (cf NMI cap. II)
la certezza della fede non rientra in nessuno dei tre gradi di certezza della ragione (matematica-metafisica, fisica, morale), ma è di ordine soprannaturale.
La definizione del Concilio Vaticano II
«A Dio che si rivela è dovuta l’obbedienza della fede (Rm 16,26) con la quale l’uomo si abbandona a Dio: tutto liberamente; prestandogli il pieno ossequio dell’intelletto e della volontà; acconsentendo volontariamente alla rivelazione da lui data. Perché si possa prestare questa fede, è necessaria la grazia di Dio, che previene e soccorre, e gli aiuti interiori dello Spirito Santo il quale: muova il cuore e lo rivolga a Dio; apra gli occhi della mente; dia a tutti la dolcezza del consentire e nel credere alla verità. Affinché poi l’intelligenza della rivelazione diventi sempre più profonda, lo stesso Spirito Santo perfeziona continuamente la fede per mezzo dei suoi doni» (DV 5)
Questa definizione intende rispondere a tre domande implicite: 
• Cos’è la fede? (prima frase) Il carattere volutamente meno apologetico del Vaticano II dà una risposta integrale su cosa sia la fede, così dopo una partenza personalistica, si porge la mano ai protestanti, sottolineando che però è sempre un’obbedienza libera, si riprende poi il Vaticano I ed infine si conclude con il “credo” a Lui e a tutto ciò che insegna.
• Come nasce? (seconda frase) Grazia alla grazia che soccorre e previene, perché già la disposizione e l’inclinazione a credere è dono di Dio, frutto della grazia attuale (non ancora di quella santificante!) e agli aiuti dello Spirito Santo che peraltro aiuta anche ad aderire.
• Come si perfeziona? (terza frase) Essa è un germe che esige di crescere, è un elemento dinamico che cresce sempre grazie allo Spirito Santo e ai suoi doni.
La definizione di Eb 11,1 e la riflessione si S. Tommaso
L’autore di Eb 11,1 dice che:«La fede è il fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono» e Tommaso fa notare che in essa c’è tutto l’essenziale:
✓ Causa formale (oggetto di fede) e Causa materiale (soggetto della fede) sono le “cose che si sperano e  quelle che non si vedono” perché hanno attinenza rispettivamente con l’oggetto della volontà, il bene, e con quelle dell’intelletto, la verità ed intelletto e volontà sono allo stesso tempo le facoltà dell’anima coinvolte nell’atto di fede e quindi ne sono il soggetto.
✓ Causa finale è il “fondamento” o “substantia” che è il raccordo tra la fede e la vita eterna perché l’oggetto della fede è lo stesso della visione beatifica e ne permette un “assaggio”.
✓ Causa efficiente è la “prova” o “argumentum” perché il motivo per cui si crede è l’impulso dato da Dio per aderire alle verità di fede e come l’intelletto è indotto dagli argomenti ad accettare qualche verità, così la fede trova il motivo della sua adesione nella mozione divina.
Tommaso darà a sua volta una sua definizione dicendo che:«la fede è un abito della mente che inizia in noi la vita eterna, facendo aderire l’intelletto alle realtà invisibili». Perciò ora vediamo …

LA VIRTÙ (HABITUS) DELLA FEDE
L’habitus fidei quindi è una conoscenza “vissuta”, un sigillo della verità prima nella mente, perché se credere è vedere con gli occhi di un altro, avere fede significa vedere con gli occhi stessi di Dio, di Gesù Cristo, e conoscere quello che lui conosce con la stessa logica giungendo così anche ad una conoscenza più alta di sé stessi. La luce della fede è allora una luce nuova che però non distrugge il dinamismo naturale dell’intelligenza razionale, ma si radica nella sua intima struttura rendendola capace di accogliere la Verità divina nella mente umana, di conoscere in maniera razionale verità divine e soprannaturali. La verità semplicissima di Dio viene però sempre conosciuta dall’uomo in maniera composita ed è questo il motivo per cui i contenuti della fede vengono espressi per articoli e nel procedere nell’approfondimento vi possono essere, nei singoli uomini, passaggi indebiti od errori. Questo ricorda anche che, per quanto eccedente il lume naturale della ragione, il lume della fede rimpicciolisce sempre Dio secondo le capacità umane ed offre una conoscenza approssimativa, potenziata in questa vita dai doni dello Spirito Santo e nella vita eterna dal “lumen gloriae”.
Lo sguardo di fede ha comunque come solo oggetto Dio contemplato in se stesso, nelle sue operazioni e nelle sue partecipazioni (creature) e che si è pienamente svelato in Gesù Cristo “autore e perfezionatore della fede” (Eb 12,2) su cui è quindi necessario tenere sempre fisso lo sguardo, anche se ciò è possibile solo grazie al dono dello Spirito Santo.
Se però la fede non è vivificata dalle opere, se non è una conoscenza “vissuta”, si parla allora della fede morta, informe, inoperosa, tipica di chi vive in peccato mortale e che è quindi la semplice adesione conoscitiva al messaggio evangelico che non fruttifica nella persona. Essa comunque c’è sempre ed è la stessa fede (cf DS 1578), ma essendo un habitus inoperoso non è più virtù perché non ha la perfezione dovuta da parte della volontà, è come un fuoco che illumina, ma non scalda.

LA NECESSITÀ DELLA FEDE
Si parla di necessità della fede in due sensi:
★ Necessità di mezzo e cioè quella realtà senza la quale è impossibile raggiungere il fine. Circa l’habitus della fede Gesù la presenta come condizione indispensabile per entrare nel Regno ed i suoi apostoli diranno che solo in virtù di essa si rinasce nel Battesimo ci si può appropriare dei frutti della morte del Signore, della salvezza. La Chiesa ha così dedotto l’assoluta necessità della fede in ordine alla salvezza e alla giustificazione e teologicamente ciò si spiega con il fatto che il proprio fine l’uomo lo conosce solo per rivelazione. 
Circa i contenuti della fede si deve distinguere tra cristiani e non cristiani:
▪ Per la salvezza dei cristiani è necessario credere nella Incarnazione-Vita-Morte-Resurrezione-Ascensione di Gesù e nella Unità e Trinità di Dio, ma questa fede esplicita non significa perfetta conoscenza dei misteri!
▪ Invece Quale fede per la salvezza dei non evangelizzati? Illuminante a tal proposito è la risposta dell’autore alla lettera agli Ebrei per cui:«Chi si accosta a Dio deve credere che egli esiste e che ricompensa coloro che lo cercano» (Eb 11,6) Tutti gli uomini per salvarsi devono quindi avere questo minimo di fede esplicita perché queste due contengono implicitamente tutte le altre verità su Dio che sono da credere implicitamente con la semplice disposizione d’animo.
★ Necessità di precetto e cioè ciò che è necessario per raggiungere il fine. L’uomo infatti vive in maniera razionale e cioè prendendo coscienza della sua natura e dei suoi fini esprimendoli in termini di autodeterminazione, di dovere morale e di precetto e che aiutano nel dovere del cristiano di non accontentarsi di un minimo di fede, ma far sì che essa possa crescere sempre più anche nel suo aspetto intellettivo (DV 5). Ciò avviene conoscendo:
▪ le verità da credere: il Credo ed i dogmi;
▪ le verità morali necessarie per la salvezza: comandamenti, precetti della Chiesa e doveri del proprio stato;
▪ ciò che si deve chiedere a Dio nella preghiera: Padre Nostro;
▪ ciò che si deve ricevere: sacramenti;
▪ ciò che si deve sperare: vita eterna e i novissimi
È anche per questo che la Chiesa in  momenti importanti e decisivi per la vita di una persona e di una comunità comanda di compiere atti espliciti di fede.
Detto tutto ciò Gesù ha indicato anche la necessità di testimoniare la fede seguendo tre criteri:
 lasciare che essa si irradi (Mt 5,14-15 …);
 avendo prudenza di tollerare dei mali per evitarne di più grandi (Mt 10,23; Gv 8,59 …);
 non rinnegare la verità quando fosse richiesto esponendosi anche al martirio.
Siccome il primo è un precetto positivo esso non obbliga in casi estremi, mentre essendo il terzo un precetto negativo obbliga in qualsiasi caso anche se per evitare di rinnegare si può sempre ricorrere al secondo criterio per cui scappare non è rinnegare! 

SVILUPPO E DIMINUZIONE DELLA FEDE
A questo punto è bene vedere le dinamiche che caratterizzano la fede:
1. La crescita della fede avviene se la si coltiva, la si nutre, la si irrobustisce come attesta il Nuovo Testamento ed essa riguarda non tanto l’oggetto della fede, che con Gesù è definitivamente definito, ma il soggetto della fede e cioè il credente, è quindi l’habitus fidei che può e deve ingrnadire. Non solo il singolo è implicato in questo progresso, ma anche tutta la comunità intera, tutta la Chiesa, come ha ribadito il Vaticano I (DS 3020), fermo restando però che questo sviluppo avviene in modo omogeneo e non dialettico e quindi le verità che si vanno scoprendo non negano mai quelle precedenti, ma le integrano e le specificano perché la realtà che approfondiscono è la stessa. Stesso discorso vale anche in campo morale (VS 28 e 80-81).
2. La fede si sviluppa secondo un triplice sentiero:
Nella linea della conoscenza, perché i rudimenti ricevuti durante i sacramenti dell’iniziazione cristiana, possono sembrare favolette per bambini e quindi urge che ognuno recuperi una mentalità di fede che sente e giudica secondo la scala dei valori presentata dal Vangelo. Questo vale ancor più nell’odierno contesto multireligioso, multiculturale e relativistico dove le verità della propria fede e della propria morale rischiano di essere presentate solo come un’eredità culturale.
Nella linea dell’intensità o dell’amore, aumentando cioè nella prontezza, nella devozione e nella fiducia che porta a crescere anche nella libertà e compiendo un salto di qualità perché la fede da tradizionale diventa sempre più personale. Vie ordinarie con cui la grazia fa crescere in questa linea sono la preghiera e i sacramenti.
Nella linea dell’azione, perché il dinamismo interiore della fede spinge sulla via dell’operatività aprendosi alla carità e orientando e iluminando tutta la propria vita privata e pubblica alla luce del Vangelo, diventando fede vissuta, fede operosa capace di irradiarsi e toccare il cuore degli altri.
Una persona poi non passa alla fede di punto in bianco (come sostengono i vari illuminati o convertiti), ma cresce nella fede attraversando delle tappe, che Agostino e tutti i grandi maestri di spirito dicono essere tre (per i loro nomi usiamo quelli del Garrigou-Lagrange):
✓ principianti, che si dibattono tra lo stato di peccato e la vita di grazia, che stanno insomma compiendo i primi passi nel cammino alla sequela di Cristo;
✓ proficienti, che stabilmente vivono in grazia e fanno reali progressi nella vita di unione con Dio, ravvisando la voce dello Spirito Santo che soffia dove vuole;
✓ perfetti, non tanto in senso stoico, ma che vivono cioè la piena unione con Dio e la loro vita è quindi quasi un preludio e un’aurora della visione beatifica.
3. Diminuzione e perdita della fede. La fede non incatena l’uomo, ma essendo un rapporto è libera e quindi la si può anche perdere o perché si voltano le spalle a Dio o il più delle volte ciò accade in modo impercettibile e indiretto a causa: dell’ambiente secolarizzato nel quale si vive; la mancanza di nutrimento; l’abbordamento dei problemi di fede con  molta superficialità; la vita morale corrotta, quando il peccatto da semplice atto peccaminoso diventa stato di peccato, diventa habitus che se magari non fa perdere la fede, fa perdere la carità e quindi indirettamente la fede che non essendo viva si trova in una situazione strana. 

LA FEDE E I DONI DELLO SPIRITO SANTO
La fede per san Paolo viene portata a perfezione da dei doni dello Spirito Santo, doni che per san Tommaso sono:
• Il dono dell’intelletto. Compito della fede è assentire a verità soprannaturali, anche se in questo aderire si conserva il modo umano di conoscere. Il dono dell’intelletto invece aiuta a penetrare in modo profondo e intuitivo queste verità, aiuta a scoprire la realtà nascosta sotto le parole umane di cui Dio si è servito per rivelarsi, perché rende partecipi del modo di conoscere di Dio! Oltre alla penetrazione dei misteri di Dio e delle Scritture viene poi donata una percezione, un possesso, un gusto delle verità a cui si aderisce con la fede. La beatitudine che accompagna il dono dell’intelletto è la purezza del cuore, ed i frutti che scaturiscono sono la gioia e la fedeltà.
• Il dono della scienza. Citato in Sir 38,6 e Sap 10,10 (volg.) indica una nuova conoscenza, di tipo soprannaturale ed infusa, propria dei santi in cielo che conoscono in base alla carità, di cui ormai godono eternamente. Come la scienza naturale essa è una conoscenza sicura. Mediante il dono della scienza l’intelligenza dell’uomo giudica rettamente delle cose create, giudicandole, per intuito, in ordine al fine soprannaturale, come le giudica Dio stesso. Tra le disposizioni con cui la grazia prepara a ricevere questo dono vi è la lettura della Sacra Scrittura (cf DV 25).  La beatitudine legata al dono della scienza è quella di coloro che piangono, dice Agostino, perché:«hanno appreso come essi furono incatenati da quei mali che avevano cercato come altrettanti beni». Infatti chi fruisce del dono della scienza scopre la miseria del peccato e che le creature sono nulla considerate in se stesse.
In sintesi: la fede conosce ancora umanamente, l’intelletto fa conoscere le cose di Dio come le conosce Dio e la scienza fa conoscere le cose create come le conosce Dio.

I PECCATI CONTRO LA FEDE
La non credenza si divide in:
La semplice non credenza, non ha alcun carattere di colpa, ma è una pena dovuta al p.o.  a cui i cristiani hanno il dovere di rimediare mediante l’evangelizzazione. La loro salvezza è legata al credere all’esistenza di Dio e alla sua provvidenza, e al comportarsi secondo i dettami della propria religione e della propria coscienza. 
Il rifiuto della fede esplicito e diretto presente anche al tempo di Gesù, di chi sa chi è Dio, chi è Gesù Cristo e conoscono il Vangelo, ma non vuole credere. Non c’entra quindi con coloro che rifiutano la fede in seguito ad una presentazione infantile della religione e che:«si immaginano Dio in modo tale che quella rappresentazione che essi rifiutano in nessun modo è il Dio del Vangelo» (GS 19).
L’eresia. Le verità cristiane sono misteriose e quindi ci si deve avvicinare ad esse con umiltà, lasciandosi condurre a Dio da Gesù Cristo e dalla Chiesa, soprattutto quando queste gli sembrano in contraddizione tra di loro o non conformi alla logica umana e si è tentati di fare un’eresia e cioè di credere qualcosa e di tralasciare il resto. Essa è definita come errore volontario e pertinace di un battezzato contro qualche verità della fede cattolica. Essa può essere di due tipi:
Materiale, quando la regola di fede viene formalmente accolta, ma si ha un’opinione erronea su un argomento che può essere facilmente correggibile e non è peccaminosa. 
Formale, eresia in senso stretto, di chi nega certe dottrine perché rifiuta la regola della fede cattolica in proposito: a questo punto si perde con la grazia e la carità anche l’abito della fede che è il principio e la radice della giustificazione, rifiutando infatti una verità della fede si rifiuta allo stesso tempo l’autorità di Dio che si rivela. Se questo vale sul piano teorico, ciò non abilita a dare giudizi pratici trancianti la fede dei singoli. L’eresia formale è peccato grave ex toto genere suo e non ammette parvità di materia.
L’apostasia e cioè l’abbandono di ciò che unisce a Dio. I legami che uniscono a Dio sono di tre tipi: la fede, l’ordine sacro e la vita consacrata. Solo la prima apostasia distrugge la fede, perché è rifiuto esplicito della fede nella sua totalità. Non sono apostati quindi coloro che per mancata educazione alla fede non hanno mai fatto un atto di fede personale e sono vissuti lontano da Dio e dalla Chiesa, sono semplicemnte non credenti o talvolta dichiaratamente atei, e neanche sono apostati quelli che in buona fede pensano di poter essere cristiani e allo stesso tempo indù ecc.
Il dubbio contro la fede non si riferisce alle normali tentazioni e neanche al dubbio metodologico che è la premessa necessaria per qualunque indagine e approfondimento, ma è la sospensione della fiducia o della adesione a Dio che si è rivelato che si può esprimere volontariamente e positivamente, con motivazioni contrarie, oppure negativamente, sospendendo in maniera pertinace l’assenso di fede. È un peccato contro la fede e la fa perdere perché viene a mancare l’adesione, basata sulla fiducia, che è l’elemento specifico della fede.
Più facilmente riscontrabili nella gente tiepida che:«rattrista lo Spirito di Dio» (Ef 4,30), sono i Vizi e peccati contro il progresso della vita di fede:
cecità della mente, originata dalla lussuria e contrastata dalla castità, priva il credente della capacità intellettiva che lo rende atto a conoscere ciò che giova alla salvezza.
ottusità dei sensi, originata dalla golosia e contrastata dall’astinenza, impedisce di andare oltre le apparenze.

LA SPERANZA
Introduzione
Intimamente legata alla condizione attuale dell’uomo viatore, indica contemporaneamente insufficienza e temporalità, perché si spera ciò che ancora non si possiede e si ha davanti a sé del tempo per conseguire il bene desiderato. La virtù soprannaturale della speranza ha molte analogie con la “speranza naturale” e cioè con quella passione che si prova di fronte ad un bene futuro, arduo e conseguibile. La figura biblica di riferimento può essere vista nella Samaritana che passa di pozzo in pozzo per attingere acqua, si riempie di tante cose e di tante emozioni, ma non è mai sazia. L’incontro con Cristo fa emergere in lei una sete nascosta nel profondo del cuore e quando Lui le legge nel cuore e nella vita intuisce che è Lui che inconsapevolmente cercava da sempre e che può estinguere la sete! Analogamente Gesù interroga ogni uomo sulla sua storia sollecitandolo a rispondere alle domandere capitali della propria vita che solo in Lui trovano risposta piena, accendendo nell’uomo una speranza nuova, quella della comunione con Dio, e conferendogli la massima dignità
La speranza nella sacra Scrittura
Nell’Antico Testamento, la speranza, cioè la fiducia in Dio, si basa su tre realtà: 
• Dio Creatore che entra in dialogo con l’uomo e ciò dopo la caduta del peccato porta all’attesa del Messia.
• L’alleanza che Dio stipula con gli uomini e l’intero popolo eletto e che viene da Lui più volte rinnovata.
• La Terra Promessa che è paradigma dei beni escatologici.
Nel Nuovo Testamento in seguito alla venuta di Gesù se ne attende il ritorno, di cui se ne gustano i frutti già e non ancora. Da esso emerge che le caratteristiche della speranza sono:
• Oggetto è l’attesa dei beni escatologici: la vita futura, la risurrezione del corpo; l’eredità dei santi che è Dio stesso, di cui siamo eredi perché coeredi di Cristo; la vita eterna e cioè la prospettiva nuova che rivela il senso preciso dell’esistenza sulla terra e che giustifica il comportamento di vigilanza e di attesa del cristiano; la gloria di Dio cioè la sua presenza che si comunica in  modo sempre più intimo ed è un bene per eccellenza dei tempi messianici; la visione di Dio, che è una prerogativa degli angeli e di Cristo estesa a tutti i figli di Dio; … tutti riassumibili nella salvezza di sé e degli altri.
• Motivo è Dio stesso che è fedele alle sue promesse ed onnipotente-provvidente. 
• Lo Spirito Santo, dono escatologico per eccellenza, già posseduto parzialmente, è sua fonte privilegiata perché la illumina, la fortifica e la fa crescere, la fa pregare, la fa operare verso l’unità di tutti i credenti, la sostiene e la purifica.
• Essa crea attesa e vigilanza, concetti entrambe molto presenti nella predicazione di Gesùe a cui sono associati la preghiera e l’autodominio.
• Sostiene nelle prove e si rafforza nella perseveranza,
Il dibattito sulla speranza nella cultura laica
La speranza è virtù assai trascurata nella manulistica teologica ed è ritornata in auge a partire dalla cultura laica ed in particolare dal marxismo, i cui orizzonti erano però evidentemente secolari. Capofila di questo risveglio fu E. Bloch con il suo “Il principio speranza”, che è un’apertura sulla totalità del reale, sul possibile essere del mondo che trascende il fattualmente esistente. La speranza è così la pulsione interna dell’utopia e la tecnologia è vista come esplorazione del possibile. Arriva ben presto la risposta di H. Jonas con “Il principio responsabilità”, per cui l’utopia di Bloch non è realizzabile e neppure desiderabile e ciò in seguito ai disastri della tecnica. Va cercato pertanto un principio morale che regoli l’esercizio del potere tecnologico, liberando le richieste di giustizia, bontà e ragione dall’esca dell’utopia, evitando di pensare cioè che il potere della tecnologia possa soddisfarle. Se Jonas ha ragione, una società senza utopia direttrice non può vivere e così l’utopia, liberata da accezioni materialiste, è un fervido terreno di incontro tra mondo laico e cristiano.
Il dibattito sulla speranza nella teologia contemporanea
L’impegno della teologia sul fronte della speranza è stato stimolato da un lato dalla pesante accusa di alienazione mossa alla religione e dall’altro dal disinteresse-indifferenza, soprattutto negli anni ’60, per le promesse della religione. Così dapprima i teologi protestanti (Bultmann, Bonhoeffer, Moltmann) e poi più equilibratamente quelli cattolici (De Chardin, Rahner) cercano di far percepire come la speranza escatologica abracci tutto l’umano anche nella sua situazione storica. Il Magistero stesso della Chiesa, soprattutto nella sua dottria sociale, ha spinto i credenti a promuovere e realizzare le speranze temporali (Pop. Progr. 47 e GS 21). La costante di tutta la riflessione cristiana è comununque che la speranza non è mai ridotta ad una trascendenza intramondana, suo punto di partenza e di arrivo rimane sempre il mistero di Cristo, morto e risorto, nel quale il Padre svela ed anticipa la realtà di ogni uomo. La via della speranza cristiana è quindi quella della theologia crucis, perché Gesù crocifisso è la rivelazione suprema del mistero trinitario come mistero di amore e di condivisione, a cui ogni uomo è chiamato a partecipare e la speranza nel futuro assoluto così illumina e sostiene l’impegno nella vita presente verso l’edificazione della civiltà dell’amore.
Definizione della speranza teologale (Pietro Lombardo)
«Virtù soprannaturale infusa da Dio nella volontà, per cui confidiamo con piena certezza di ottenere la vita eterna e i mezzi necessari per raggiungerla appoggiati sull’aiuto onnipotente di Dio». Alcune note su questa definizione:
La speranza, come la carità, non tocca tutta l’anima come la fede, ma solo la volontà. Toccando la volontà Dio accendende in noi un amore soprannaturale che ci fa gravitare attorno a Lui perché l’amore è un legame, una vis, una forza unitiva. E si noti che sono due gli amori “accesi”, perché non esiste l’amor puro, l’uomo ama sempre in due modi: interessato e disinteressato, concupisciente e benevolente, eros e agape, speranza e carità. Se ogni realtà la amiamo sempre nel primo senso (che non è totalmente negativo, perché noi abbiamo bisogno degli altri …) siamo tutti chiamati a sviluppare anche il secondo.
L’oggetto della speranza è la vita eterna, il possesso di Dio che è già attingibile nella vita presente attraverso la grazia, la santità, ma essendo germinale non è mai definitivo;
I mezzi necessari sono di tipo soprannaturale e sono la grazia, i sacramenti, la comunione ecclesiale, la preghiera … ma detto ciò si possono sperare di speranza teologale anche i mezzi naturali (salute, lavoro, famiglia, affetti …) in quanto utili per la salvezza;
La speranza si fonda sull’aiuto onnipotente di Dio concretizzato in Cristo morto, risorto ed asceso al cielo. Essa però si può poggiare, come motivo derivato e secondario, anche sulle creature che operano sotto l’azione di Dio e partecipano in modo particolare della sua forza ed è per questo che si può sperare nell’intercessione di Maria, degli angeli e dei santi e nell’intercessione dei fratelli nella fede e nei propri meriti, cioè opere compiute mossi dallo Spirito di Dio e che come tali sono rese da Dio “eterne”.
Il dono del timore di Dio
Se la speranza da parte divina è fermissima e Dio in sé non è temibile perché è amore, da parte nostra è insicura perché possiamo essere volontariamente infedeli alla grazia e compromettere così la nostra salvezza eterna: ecco perché essa è intimamente legata con il timore, che è quell’emozione per cui si è spinti a fuggire da un male incombente, dal quale però si ha sufficiente fiducia di poter scampare. Ora vediamo quindi che cosa s’intende per timore di Dio elencando i vari tipi di timore che distinguono i teologi:
▪ mondano, che è peccaminoso perché si cerca solo il vantaggio di fronte al mondo;
▪ servile o della pena del danno, che spinge a servire Dio e a compiere la sua volontà per timore del male che può derivare dal peccato: per quanto imperfetto, questo timore è buono nella sostanza ed ha fondamento scritturistico nella conversione di Ninive, nella conversione del figliol prodigo e in alcune frasi matteane (Mt 10,28; 16,26);
▪ filiale, riverenziale o della colpa, tipico di chi ama Dio e fa ciò che Egli chiede per piacergli in tutto e per non offenderlo: esso è buono, perfetto e sempre accompagnato dalla carità;
▪ iniziale, a metà strada tra il secondo ed il terzo.
La speranza teologale è talmente connessa con il timor di Dio che procedono a pari passo ed essa infatti giunge ai suoi vertici proprio con il dono del timore di Dio che lo Spirito Santo gli fa e che è frutto quindi della grazia di Dio e non della laboriosità umana e sue caratteristiche sono:
▪ è quell’abito soprannaturale per cui il giusto acquista una speciale docilità per sottomettersi totalmente alla divina volontà a motivo della riverenza dovuta a Dio;
▪ agisce direttamente sul timore filiale, ma influisce anche sul timore iniziale purificandolo gradualmente dal timore servile; 
▪ rimane anche in cielo come sentimento di riverenza per la maestà è trascendenza di Dio;
Effetti del dono del timor di Dio sono:
▪ vivo senso della grandezza e della maestà di Dio, che aiuta a purificare ogni pensiero di vanità e di presunzione;
▪ un grande orrore per il peccato ed un vivissimo dolore di averlo commesso;
▪ una grande vigilanza nell’evitare le più piccole occasioni di offendere Dio;
▪ distacco perfetto da tutte le creature
Frutti di questo dono sono la mitezza ed il dominio di sé e la beatitudine corrispondente è quella dei poveri in spirito, che sperano infatti solo in Dio, e di quelli che piangono, consapevoli del peccato e del giusto valore delle cose terrene. 
Peccati contro la speranza teologale:
 La disperazione della salvezza e cioè quando si rifiuta l’aiuto di Dio e si rinuncia alla beatitudine eterna perché il suo raggiungimento è considerato impossibile e se magari si continua a credere alla bontà e alla misericordia di Dio si ritiene di esserne indegni o si pensa che i propri peccati siano più grandi della misericordia di Dio! È uno dei peccati più gravi, tanto da essere annoverato tra quelli contro lo Spirito Santo. Esso si manifesta nella ripugnanza o allergia all’impegno morale. Cause della disperazione vanno ricercate nell’accidia, cioè la nausea per le cose di Dio, l’anemia nelle cose spirituali, e nella lussuria, in chi fa cioè del piacere sensuale lo scopo della propria vita
 La presunzione della salvezza senza merito e cioè quando si dà per scontato l’aiuto di Dio pensando di poter fare a meno della grazia. Anch’essa è molto grave ed è un peccato contro lo Spirito Santo perché fa trascurare e disprezzare l’aiuto divino indispensabile per tendere al bene soprannaturale. Non si tratta quindi di un’eccessiva fiducia in Dio, ma di una falsa fiducia che comporta il disprezzo della santità o giustizia divina. Tra le cause c’è l’eccessiva fiducia in sé stessi e la superbia.

LA CARITÀ
INTRODUZIONE
Importanza e attualità del trattato
Il trattatto sulla carità tocca lo specifico della morale cristiana sovrabbondando su quello sulla giustiza come la dignità filiale sovrabbonda su quella creaturale: il vertice della moralità infatti non è semplicemente la giustizia (come vorrebbero i filosofi pagani), ma la santità, l’essere figli di Dio perfetti nella carità. La carità è poi anche la via maestra dell’evangelizzazione, perché evangelizzare è far incontrare gli uomini con l’amore di Dio e di Cristo che viene a cercarli! Dire “vertice” non vuol dire che la carità si sostituisce all’esercizio delle virtù morali, ma che le porta a perfezione!
I grandi effetti della carità:
infonde nell’uomo la vita spirituale e cioè la vita di Dio;
fa osservare i comandamenti divini;
è baluardo contro le avversità, che non lo danneggiano, ma tornano a suo vantaggio;
conduce alla beatitudine eterna;
causa la remissione dei peccati;
è sorgente di lumi nel cuore, insegnando tutto ciò che è necessario alla salvezza;
conduce l’uomo alla perfetta letizia, alla vera gioia;
produce la pace perfetta;
conferisce all’uomo un’alta dignità, perché trasforma l’uomo da schiavo in uomo libero.
Detto ciò è necessario sapere che nessuno può avere la carità da sé stesso, perché si tratta di un dono esclusivo di Dio che va poi conservato e se tutti gli altri doni si possono ottenere senza la carità e lo Spirito Santo, lo Spiriso Santo lo si possiede solo e necessariamente con la carità.
Il termine amore nei vari lessici
Nel vocabolario greco esistono quattro termini: 
✓ , che indica i teneri sentimenti familiari, l’affetto tra i due sposi e la simpatia per un amico od un compatriota;
✓ , l’amore passionale ed il desiderio di possedere l’altro che non è solo di tipo sensuale, ma (per la scuola platonica) è anche ascesa dell’anima alla bellezza in sé: in entrambe i casi è una forza che travolge l’uomo sopraffacendo la ragione;
✓  , usato per indicare l’affetto premuroso degli dei verso gli uomini, tra gli amici e l’amore che abbraccia tutto ciò che è umano; non è istintuale ed è caratterizzato da calore umano, cortesia e benevolenza;
✓ , come sostantivo è stato introdotto dalla Bibbia dei LXX e:
▪ si rifà al verbo usato anche da Omero, la cui etimologia è vana e riconduce a verbi quali: essere contento, accogliere, salutare, trattare con il dovuto onore e prediligere; 
▪ indica poi un’azione frutto di una libera scelta, tanto che per Spicq questo tipo di amore designa un profondo rispetto che spesso si combina con l’ammirazione e culmina nell’adorazione;
▪ indica un amore che tende ad esprimersi con parole e gesti convenienti, è essenziale per questo tipo di amore il manifestarsi, tanto che questo sostantivo potrebbe essere sempre tradotto come “manifestazione d’amore”;
▪ indica un sentimento gioioso che quasi pregusta la beatitudine e si esprime in acclamazioni, plauso, segni di rispetto, felicitazioni, lodi e venerazione.
Nel vocabolario  ebraico, l’amore è indicato con ohabà ed indica tre realtà:
✓ la passione travolgente tra uomo e donna;
✓ la fedeltà disinteressata dell’amico;
✓ la sicura osservanza della giustizia; 
Quindi il termine ebraico: 
✓ racchiude la ricchezza dei tre concetti greci fatta eccezione per l’erotismo religioso;
✓ è un atto di volontà e si traduce in azioni concrete;
✓ al contrario di quello greco che è cosmico, indiscriminato e incurante della fedeltà, esso è geloso, sceglie il suo oggetto tra migliaia d’altri, lo domina con tutta la forza della passione e della volontà e non ammette infrazione alla fedeltà
Come già detto i LXX hanno quasi sempre tradotto questo termine con 
La terminologia della Volgata traduce il greco  con dilectio, quando prevale il senso di rapporto affettuoso, e soprattutto charitas, quando l’oggetto non è determinato, termine che deriva peraltro da carus, che significa qualcosa di prezioso, di caro, di stimato.
Il termine “carità” sembra derivare sia da charitas che da  che significa grazia, dono di Dio e comunque il concetto che più si avvicina alla carità non è tanto l’amore che può essere solo uni-direzionale, quanto l’amicizia che è un amore ricambiato!

DIO È CARITÀ
Premesso che la più alta conoscenza di Dio l’avremo solo nell’aldilà e che converrebbe stare in silenzio adorante di fronte al mistero che Lui è, spesso il silenzio è inteso come incomunicabilità mentre Dio stesso si è rivelato molte volte ed in diversi modi (cf  Eb 1,1).
La rivelazione dell’amore di Dio nella luce della creazione
Nella creazione infatti Dio si lascia contemplare come Creatore e come Totalmente Altro.
La rivelazione dell’amore di Dio nell’Antico Testamento
Uno scatto di conoscenza viene dal vedere i rapporti che Dio ha intessuto con l’umanità e che evinciamo dalla Sacra Scrittura:
All’inizio non si parla espressamente di amore, ma in tutte le sue azioni di Dio è mostrato come uno che fa tutto per amore perchè: si compiace delle sue creature; ha cura dell’uomo e fa di tutto per farlo stare bene e a suo agio; addirittura lo crea a propria immagine e somiglianza; dopo il peccato non lo abbandona, ma gli promette la redenzione e lo veste; quando il degrado morale dell’uomo lo fa pentire d’averlo creato, manda Noè e con lui stipula un patto d’amore eterno con l’umanità.
In Abramo comincia a palesarsi la vocazione dell’uomo a diventare amico di Dio, infatti se anche qui non si parla espressamente di amicizia, essa emerge da vari aspetti: ad Abramo Dio svela i suoi segreti; Abramo interloquisce in modo ardito con Dio; per Dio Abramo rinuncia alla sua terra e anche al proprio figlio. Questo basta già a giustificare perché Abramo già nella Bibbia è presentato come “amico di Dio” (Is 41,8; Dn 3,35; Gc 2,23) In lui pii è prefigurato quanto Dio vuole fare con tutta l’umanità e ri rivela per la prima volta la dedizione e l’obbedienza assoluta con cui Dio merita che si risponda alla sua iniziativa.
Il disegno dell’amore di Dio diventa ancora più evidente con Mosè e nei suoi dialoghi con Dio prima al roveto ardente, dove Gli chiede addirittura il nome, e poi sul monte Sinai, dove ottiene che Dio cammini in mezzo al suo popolo. Anche questa vicenda prefigura molte cose: innanzitutto il nome stesso di Mosè, salvato dalle acque, è richiamo a Noè, prefigurazione di Israele salvato dalle acque e poi di tutti quelli che nell’acqua battesimale  riceveranno la partecipazione alla vita divina; poi la promessa di Dio che cammina in mezzo al suo popolo sarà attuata Gesù, il Verbo di Dio che prende dimora tra gli uomini.
L’amore di Dio si vede poi nella stipulazione dell’alleanza gratuita e perenne, giurata da Dio nonostante le infedeltà degli uomini, e a cui l’uomo è chiamato a corrispondere con un amore senza riserve, espresso mediante atti di adorazione e di obbedienza, con scelte radicali e tagli netti, ma consapevole dell’incapacità di amare Dio con tutto il cuore, il pio israelita invoca una alleanza spirituale, una rigenerazione interiore opera dello Spirito Santo.
Con il progredire della Scrittura vanno poi aumentando le metafore di paternità e maternità che avanzano comunque lente perché nei popoli vicini si intendevano in senso biologico, mentre Israele conserva intatto il senso della trascendenza divina.
Si affaccia poi parallelamente a questa l’immagine di Dio come sposo o sposa;
L’amore di Dio poi non è solo per Israele come popolo, o nei suoi capi, o nei suoi saggi, ma raggiunge singolarmente e personalmente ogni membro del popolo eletto soprattutto i più umili, i più derelitti ed i più disprezzati cioè i cosidetti “poveri” gli anawim.
È poi necessario perseverare nel suo amore anche quando tutto rema contro (Giobbe docet). 
La rivelazione dell’amore di Dio nel Nuovo Testamento
In essa ciò che l’Antico Testamento giunge al suo culmine e ciò che prima era solo preparazione  e prefigurazione ora trova il suo compimento. Così emerge che:
1. Dio è buon, ma soprattutto dal passo giovanneo 1 Gv 4,8-10 emerge che è amore e lo è in maniera eterna, universale, perfettamente gratuita, attiva, dinamica , immensa ed epifania. Se l’opera giovannea sottolinea che Dio è amore, tutte le Scritture intendono svelare questo volto e tendono a questa verità suprema: Dio ci ama ed è provvidente perché è amore e questa è la notizia più bella e più sconvolgente che sia mai risuonata sulla terra.
2. Cristo è l’immagine viva della carità divina, è il vangelo vivente della carità e soprattutto nella sua Passione e Croce, che costituendo il vertice della rivelazione di Dio lo è anche della rivelazione della sua essenza, del suo amore e dell’obiettivo del suo disegno che è donarci la vita e cioè la partecipazione alla comunione trinitaria, un’amicizia senza pari che è realizzata per mezzo dello Spirito Santo che viene ad abitare in noi.
3. Cristo dona agli uomini una nuova capacità di amare, perché per mezzo dello Spirito Santo dona loro il suo amore con il quale siano per altro in grado di amarsi come Lui li ha amati.
Spicq da questo quadro fa emergere la prima definizione di carità che è:«il modo di amare tipico di Dio ed il modo di amare di coloro che sono stati gratificati di questo dono da parte di Dio» e cioè di coloro che sono chiamati “figli di Dio”, i cristiani.
4. Il Signore sottolinea a tal punto l’importanza e l’urgenza di questa carità al punto di farne l’oggetto dell’unico precetto della sua morale e la legge istituzionale della sua Chiesa: Il precetto dell’amore. E questo lo esprime in tre momenti: 
a. Nel discorso della montagna, da cui emerge che amare Dio significa vivere per Lui, obbedire fedelmente ed umilmente ai suoi comandamenti, sottomettersi alla sua sovranità, mettere sopra ogni cosa la realizzazione del suo regno, seguirlo con fiducia illimitata rimettendo a lui ogni cura. Tre sono le caratteristiche di questo precetto che emergono in questo contesto:
i. la novità di questa giustizia che è interiore, al di là della lettera e libera;
ii. l’amore del prossimo, anche se è nemico, con pazienza, generosità, disinteresse, misericordiosi, liberali … insomma perfetti come il Padre;
iii. il prossimo è chiunque, soprattutto gli ultimi, non esistono più confini.
Ma per amare Dio si deve dichiarare guerra a mammona e all’ambizione e sapere superare anche le persecuzioni che arriveranno di sicuro.
b. Nel corso del suo ministero, in cui Gesù fa della carità la condizione necessaria della salvezza e la cui efficacia è analoga a quella dei sacrifici espiatori.
c. Durante l’ultima settimana a Gerusalemme, da cui emerge che l’amore di Dio e del prossimo sono due facce della stessa medaglia, sono un solo amore che si esprime in due forme diverse, sono talmente compenetrati che non possono stare da soli.

ESSENZA DELLA CARITÀ
Varie accezioni di carità
Carità è un termine analogico e con esso si può quindi intendere:
L’amore essenziale con cui Dio ama se stesso, che si identifica con la sua stessa natura e che si manifesta visibilmente in Cristo.
L’amore personale all’interno della SS. Trinità e cioè la persona dello Spirito Santo, invocato nella liturgia come “fons vivus, ignis, caritas” e che Giovanni Paolo II nella Dominum et vivificantem la n.10 ha detto che è:«amore e dono (increato), da cui deriva come da fonte ogni elargizione nei riguardi delle creature».
L’amore di Dio per noi, che è diverso dal nostro perché se noi amiamo una realtà per il bene che ha o che desideriamo, quello divino è causativo del bene, perciò Dio non ama maggiormente una persona per il fatto che è più perfetta o più santa, ma una persona è più perfetta e più santa per il fatto che è più amata da Dio. Sorgono però due problemi: 
1) L’atto di amore con cui Dio ama se stesso è distinto dall’atto di amore con il quale ama le creature? Per il Garrigou Lagrange la distinzione è solamente virtuale e se quello divino è necessario, quello verso le creature è libero. 
2) Dio ama una creatura più di un’altra? Da parte dell’atto di volontà no, ma da parte del bene che si vuole all’amato sì, perché Dio ama alcune cose più che altre, perché per alcune creature ha voluto beni maggiori che per altre, come dice S. Agostino:«Dio ama tutte le cose che ha fatto, ma tra esse ama di più le creature ragionevoli, e tra queste ama quelle che sono membra del suo Figlio unico, e molto di più ancora il suo stesso Unigenito», Cristo come uomo è infatti amato dal Padre più di tutto il complesso delle creature e quindi Cristo va amato più di ogni altra così l’amicizia con Lui va preferita a tutte le altre. Solo in questa amicizia si viene introdotti nel circolo di amore divino, e si conforma il proprio modo di amare a quello di Dio.
L’amore soprannaturale di benevolenza con cui amiamo Dio per se stesso e il prossimo per amor suo, amore che è infuso in noi dallo Spirito Santo.
Noi parleremo di carità secondo quest’ultimo significato, che è la carità intesa cioè come virtù o abito soprannaturale infusa da Dio nei nostri cuori.
La carità è amicizia con Dio
Elemento questo che emerge già nell’AT come abbiamo visto, ma che diventa esplicito nel NT (Lc 12,4; Gv 14,21; 15,12-15) e che il Magistero ribadirà sia nel Concilio di Trento (DS 1528) che nel Vaticano II (DV 2), ma che la teologia ha tardato a formulare, perché i Padri Orientali hanno subito corrotto il lavoro della Bibbia dei LXX e del NT preferendo ad  il termine platonico , ritenuto più nobile ed il primo ad identificare chiaramente la carità con l’amicizia soprannaturale con Dio è stato San Tommaso, amicizia che è fondata sulla comunicazione dei beni divini che Dio fa all’uomo, primo fra tutti quello della comunione con Lui.
Che cosa è l’amicizia
Essa è:«amore di benevolenza, mutuo, fondato su qualche cosa che si possiede in comune»:
Amore … perché è una forza, un’attrazione che spinge la volontà ad unirsi al bene.
… di benevolenza … e non di concupiscenza perché l’amico è amato per se stesso, ciò che è preminente è il suo bene.
… mutuo … la benevolenza è infatti solo il principio dell’amicizia che si realizza solo laddove esiste la corrispondenza e porta i due “amanti” ad uscire da sé stessi, ad un’estasi, tanto che colui che ama vive più dentro l’amato che dentro se stesso, e quando estasi è totale per l’intensità dell’amore, colui che ama può arrivare ad immolarsi, a perdersi per il bene della persona amata: l’estasi totale è la kenosi. Nella gioia di tale amore pare di trovare il senso ed il segreto della felicità dell’intera esistenza. Tale è l’amicizia tra Dio e l’uomo: Dio esce da se stesso per abitare nel cuore dell’uomo e l’uomo esce da se stesso per abitare nel cuore di Dio … ma è il primo movimento a fondare quest’amicizia.
… fondato su qualche cosa che si possiede in comune. Fra gli amici infatti vi è una tale affinità che si può dire che uno è il prolungamento dell’altro, infatti per gli antichi l’amicizia o trova uguali o rende uguali. Nel caso dell’amicizia con Dio sorge però subito una difficoltà a prima vista insormontabile, perché noi non siamo pari a Dio, né possiamo conoscere i suoi pensieri, ma la rivelazione cristiana è proprio questo che viene a dire, perché mediante la grazia noi diventiamo partecipi della natura divina, Dio entrando in noi, ci rende conformi a sé e così la carità come vera amicizia, non spinge a vivere solo per il Signore, ma con Lui.
Esenziali per l’amicizia sono quindi l’amore reciproco, la benevolenza e la comunicazione dei beni, due sono quindi le conseguenze:
l’amicizia richiede una certa comunione di vita;
ci vuole una certa identità di volontà, perché gli amici hanno un idem velle e un idem nolle.
La “communicatio” 
Più gli amici si vogliono bene dunque e più grande è la comunicazione dei beni e quindi la “communicato” è il fondamento dell’amicizia e il motivo stesso del suo dinamismo!
Nel caso della carità, il fondamento della communicatio, è la compartecipazione della beatitudine eterna, possibile non per l’imago dei naturale, ma per quella similitudo Dei acquistata pe grazia che rende l’uomo figlio adottivo di Dio ed inizia in lui ciò che avrà compimento nella gloria. Questa infusione della carità è la radice di una morale di comunione, la carità infatti non solo ispira la morale dei figli di Dio, dei cristiani, ma ne costituisce l’anima, essa è l’essere e la vita dei cristiani che sono essenzialmente in comunione tra di loro, vivi e defunti, e con il Padre. Emerge quindi un quadro dell’insieme dei cristiani, la Chiesa, come istituzione visibile e operante della carità, essa è da un lato la carità di Dio che ha preso corpo nella storia e dall’altro lato è a servizio della carità e la comunione nella carità è adeguatamente espressa e mirabilmente prodotta dall’eucaristia, dove l’uomo impara e assimila da Cristo come vivere la carità nel quotidiano.
La definizione tradizionale della carità (Pietro Lombardo)
«La carità è l’amore con cui si ama Dio per se stesso ed il prossimo per amore di Dio» Questa è stata ripresa e completata prima da LG 42 e poi dal Catechismo della Chiesa Cattolica che al n. 1822 recita:«la carità è la virtù teologale per la quale amiamo Dio sopra ogni cosa per se stesso ed il prossimo come noi stessi per amore di Dio». Si noti che Dio è l’oggetto formale quod e quo (è amato “per se stesso” ed è ciò che differenzia la carità dalla speranza) della carità, mentre l’amore del prossimo come noi stessi e quindi verso noi stessi è l’oggetto materiale secondario, mentre il resto della creazione è amato di carità solo indirettamente. E questo amore non deve essere intensivamente sommo, ma basta che lo sia oggettivamente, nella stima e nella gerarchia dei valori.
La questione dell’amor puro
La definizione di carità permette di affrontare la questione dell’amor puro che tanto ha interessato il secondo millennio cristiano e che si affaccia periodicamente nella storia del pensiero. Il primo che ha postulato sistematicamente l’amor puro è stato Pietro Abelardo che collocava il motivo formale della carità nella sola bontà di Dio, escludendo qualsiasi riferimento al nostro profitto o alla nostra utilità: Dio va amato per se stesso anche se da Lui non ci derivasse alcun bene, ma solo dei mali. 
La sua dottrina fu ripresa da Scoto, Lutero, Giansenio e Fenelon ed in particolare dagli Alumbrados della Spagna prima e dai quietisti poi per cui ogni pratica ed immagine erano fuorvianti e la sola via per giungere a Dio era l’annientamento dell’intelligenza e della volontà per mezzo di una totale sospensione delle loro operazioni, così da rendere l’aniama inerte nella mani di Dio.  
La soluzione viene ancora da san Tommaso, ripresa poi da San Francsco di Sales, perché egli dice che l’uomo è inclinato per natura ad amare Dio sopra ogni cosa e più di se stesso, inclinazione che è diminuita in noi dalle conseguenze del p.o. e dai peccati personali, ma che comunque rimane nel fondo dell’anima tanto che la retta ragione coglie la necessità dell’amore di Dio anche se le forze umane sono incapaci di attualizzarla e anche qualora ne fossero capaci, si tratterebbe ancora di un amore naturale per Dio e infinitamente lontano dalla carità che è un amore essenzialmente soprannaturale. È quindi la grazia ad aiutare l’uomo ad amare Dio sopra ogni cosa attraverso la carità con la quale si ama Dio per se stesso. Se la carità però fosse amor puro essa non potrebbe amar Dio con quell’amore per il quale si è contenti che Egli voglia il nostro bene, perché nell’ipotesi che Dio non sia il bene dell’uomo, questi non avrebbe motivo di amarlo! La ragione di fondo per cui la carità non è amor puro è che essa è amore mutuo di amicizia e per mezzo suo l’uomo ha una certa società spirituale con Dio. E proprio per questo speranza e carità sono due amori che si rigenerano reciprocamente e non solo non sono contrari, ma sono inseparabili!

LA CARITÀ E L’INABITAZIONE DELLA SS. TRINITÀ
Dio è presente in tutte le cose in tre maniere:
per la sua potenza, perché tutto gli è sottomesso;
per la sua presenza o infinita conoscenza per cui tutto gli è costantemente presente;
per la sua essenza per mezzo della quale egli conserva ogni realtà all’esistenza
Questi tre tipi di unione formano la cosiddetta presenza di immensità che si distingue però da un altro tipo di presenza, totalmente nuova e di ordine soprannaturale che si realizza nell’anima dei giusti e a cui viene dato il nome di inabitazione: con essa si va al cuore della rivelazione cristiana.
La rivelazione dell’inabitazione
Se nell’AT qualche accenno avviene già nel libro della Sapienza, la preparazione a questa nuova presenza avviene attraverso due eventi patricolarmente significativi:
▪ La presenza di Dio iniziata a livello personale da Abramo e Mosè, ma poi estesa a tutto il popolo e che va sperimentata con la preghiera e la presentazione alla tenda prima e al tempio poi, che erano il luogo ed il segno della sua presenza. Tempio che peraltro è prefigurazione del vero tempio che sarà Gesù Cristo e in cui Dio abiterà personalemnte tra noi. Si noti per altro che san Benedetto dice che stare alla presenza di Dio è il principio dell’umiltà che è il solido fondamento di tutta la vita cristiana, dice san Tommaso.
▪ Il ruolo dello Spirito Santo già presente e operante in Giuseppe, in alcuni giudici e visto come Colui che introdotto nel cuore degli uomini li stimola ad un rinnovamento morale, ma che viene promesso come dono agli uomini nei tempi messianici specialmente da Geremia ed Ezechiele. San Tommaso dice che la legge nuova consiste proprio nella grazia dello Spirito Santo che permette la comunione con Dio mediante la grazia.
Nel NT l’inabitazione di Dio in noi è legata alla presenza dello Spirito Santo in noi che permette la presenza del Figlio e del Padre che è perenne a patto che la persona osservi i comandamenti vivendo in stato di grazia: Il giusto contiene dunque Dio nel suo cuore e Dio contiene lui. E quindi quando il giusto, che è in grazia, chiede qualcosa a Dio per la propria vita soprannaturale Egli lo ascolta non per amicizia (ex-congruo), ma per giustizia (ex-condigno): insomma Dio deve ascoltarlo e il giusto da par suo sa che il dono avverrà comunque sotto forma di croce!
Nella riflessione dei Padri e di S. Tommaso
Sant’Agostino dice che nel giorno di Pentecoste lo Spirito Santo venne ai suoi fedeli:«non più per una semplice operazione o per una grazia di visita, ma per la presenza stessa della sua maestà: non fu solo l’aroma del profumo sacro, ma la stessa sua sostanza che s’infuse nel vaso dei loro cuori» anche se lui stesso dice che:«non fu nella Pentecoste che lo Spirito Santo incominciò ad abitare nei santi (e cioè i giusti dell’AT) per la prima volta, ma in quel dì accrebbe i suoi doni, mostrandosi più ricco ed effuso» e Didimo il Cieco:«Sarebbe un’empietà mettere lo Spirito Santo al livello delle creature. Un essere creato non abita in un altro: le arti e le scienze, le virtù e i vizi, abitano in certo modo in noi, ma come qualità accidentali e non come sostanze … ora è la propria sostanza dello Spirito Santo che abita nei giusti e li santifica e solo alle Tre Persone della Trinità appartiene di poter, colla loro sostanza, penetrare nelle anime» e per lui lo stesso Satana entra nel cuore degli uomini non in senso sostanziale, ma con la sua operazione e cioè con le sue perfide suggestioni ed i suoi inganni. San Tommaso sistematizza il lavoro di Didimo il cieco dicendo che è proprio di Dio penetrare nell’essenza stessa dell’anima e questa nuova presenza produce e conserva in lei la grazia santificante e muove l’anima alle sue operazioni soprannaturali, anche se non si limita ad esse che sarebbero i semplici frutti di un’unione morale: Dio infatti abita nell’anima come in un tempio! 
La presenza della persona dello Spirito Santo come oggettto di conoscenza e di amore è quindi vera e reale, come lo è anche il possesso ed il godimento, almeno iniziale, della stessa Persona divina: è l’imperfetto inizio della futura beatitudine che sperimentano i santi già in questa vita.
Conferme del Magistero
Arrivano in particolare da due testi: 
la Divinum illud munus di Leone XIII, che a ciò che è appena stato detto specifica nel punto 9 che :«l’inabitazione non nell’essenza, ma solo nel modo differisce da quella di cui godono i beati in cielo» e che:«per quanto anche nell’uomo privo della grazia compaiono le tracce della divina potenza e sapienza, della carità invece, che è come la caratteristica propria dello Spirito Santo, nessuno è partecipe se non l’uomo giusto».
la Mystici corporis di Pio XII riafferma questa presenza come:«relazione mediante la conoscenza e l’amore in modo del tutto intimo e singolare», sorvolando così sulle interpretazioni delle scuole teologiche circa la modalità di questa presenza.
Alcuni effetti della inabitazione di Dio nelle anime
• La conoscenza “quasi” sperimentale di Dio, perché lo Spirito Santo è Colui che insegna ogni cosa e attraverso la carità, primo effetto della sua presenza, causa l’illuminazione del cuore ed insegna tutto ciò che è necessario alla salvezza. Questa conoscenza è perciò legata non allo sforzo della mente, ma al grado di amore: è la scienza dei santi.
• Una straordinaria dolcezza dell’anima, che è uno di quei segni per i quali possiamo congetturare il nostro stato di grazia. Gli altri tre sono: la testimonianza della coscienza per cui si è consapevoli di amare il Signore e di essere pronti a qualsiasi cosa pur di non offenderlo; l’ascolto della parola di Dio ed il metterla in pratica; l’interno assaporamento della divina sapienza.
• Una particolare comunione con il Paradiso.

ECCELLENZA DELLA CARITÀ
L’eccellenza della carità è manifestata in 1 Cor 13 e poi in Col 3,14.
In questa vita è migliore cosa amare Dio che conoscerlo
Così dice san Tommaso e questo per tre motivi:
1. la carità raggiunge Dio come è in se stesso;
2. se la conoscenza crea un’unione intenzionale, l’amore tende ad un’unione reale;
3. conoscendo Dio si finisce per rimpicciolirne la grandezza secondo la nostra capacità creata di comprenderlo, mentre la carità ci unisce a Dio per ciò che egli è nella sua realtà. 
In cielo invece le cose si porranno diversamente perché mediante la visione beatifica Di entrerà in noi, ci possederà perfettamente e lo conosceremo così come Egli conosce se stesso e noi e l’amore sarà una conseguenza necessaria, la nostra volontà sarà invincibilmente rapita.
“Senza la carità sono un nulla” (1 Cor 13,2) 
Questo “nulla” va inteso ovviamente secondo l’essere della grazia e cioè:
La fede e la speranza, senza la carità, non sono vere virtù.
Senza la carità poi neanche le altre virtù possono essere perfette, perché manca loro il dovuto ordinamento al fine ultimo.
Circa il merito infine.Infatti le opere possono essere: mortifere; buone ma morte perché prive della grazia e che quindi qualcosa meritano, ma non nell’ordine della grazia; meritorie perché compiute in reale unione con Cristo perché:«chi rimane in me e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla» (Gv 15,4-5). Pertanto l’uomo con le sue sole facoltà naturali non può compiere opere meritorie proporzionalmente alla vita eterna, ma si richiede per questo una virtù superiore quale è appunto quella della grazia.
La carità è “forma” di tutte le virtù
Espressione coniata dall’Ambrosiaster, autore coevo di S. Ambrogio. San Tommaso dice che ciò va inteso nel senso che è compito della carità ordinare gli atti di tutte le altre virtù all’ultimo fine, trasformando ogni azione in un atto di amore per Dio, conferendo ad esse un nuovo volto, una nuova essenza, un nuovo specifico. La carità così non si sostituisce all’esercizio delle altre virtù, non muta il loro obiettivo intrinseco, ma aggiunge alla dignità di ogni atto virtuoso, l’intensità dell’amore divino e quindi maggior dignità, accrescendo straordinariamente il loro valore perché lo mette in relazione diretta ed immediata con Dio. In tal modo la carità diventa il motivo che collega tutta la vita umana perché evita il frantumarsi psicologico e morale dell’individuo nella molteplicità degli atti e aiuta il ritrovarsi pieno della persona nel dono di sé, perché la inclina a compiere ogni azione per amore di Gesù Cristo. È anche per questo che la carità viene chiamata giustamente radice e fondamento della altre virtù, perché le sostiene e le alimenta con la sua linfa.

ORIGINE, SVILUPPO E PERDITA DELLA CARITÀ
Origine divina della carità
Già si è detto sull’origine divina della carità, ma due disposizioni occorrono per ottenerla: un attento ascolto della parola di Dio che infiamma il cuore ed il pensiero continuamente rivolto al bene. 
E la misura con cui Dio infonde la carità nei nostri cuori non dipende dalla capacità della natura o dalle disposizioni naturali di colui che la riceve, ma unicamente dalla volontà dello Spirito Santo che distribuisce i doni come vuole (1 Cor 12,11 e DS 1529) e la motivazione teologica di ciò è che:«siccome la carità supera infinitamente la proporzione della natura umana, non può dipendere da nessuna virtù naturale, ma solo dalla grazia dello Spirito Santo che la diffonde». E le capacità di ognuno di cui parla Mt 25,15 o la disposizione e la cooperazione di cui parla DS 1529 dipendono comunque dalla grazia preveniente dello Spirito Santo che produce nell’anima una disposizione soprannaturale corrispondente al grado di grazia o di carità che vuole infondere in essa.
Crescita e sviluppo della carità
Siccome la carità è il principio vivificante della grazia, domandarsi come essa cresca significa chiedersi come cresca la santità.
Innanzitutto va subito detto che la carità può, anzi, deve aumentare, perché come dice san Tommaso:«noi camminiamo verso Dio e … questo avvicinamento è prodotto dalla carità … per questo l’apostolo dà alla carità il nome di via, laddove dice “Io vi mostrerò una via migliore di tutte” (1 Cor 12,31)» e come dice Sant’Agostino commentando il versetto 6 del Sal 84 (83):«Giacché quest’uomo nulla può da se stesso è necessario che la tua grazia lo prenda. E che cosa fa la tua grazia? Dispone gradini nel suo cuore … Salite questi gradini per mezzo dell’amore» e nell’epistola 186 dice invece:«La carità merita di essere aumentata affinché, una volta accresciuta, meriti di diventare perfetta».
Detto questo nasce spontaneo chiedersi come aumenta la carità. Essa non cresce per addizione, come per le cose materiali, o per estensione, come per gli abiti intellettuali, ma per un’intensità sempre maggiore e cioè per una maggior radicazione nel soggetto, per una conformazione sempre più piena allo Spirito Santo che la inclina ad aderire sempre più a Dio amato per se stesso e al prossimo amato per amore suo e ad allontanarla dal peccato con atti sempre più radicali. Non sono dunque gli atti di carità a causarne l’aumento, ma Dio solo che lo fa quando rende l’uomo meritevole di riceverlo disponendolo soprannaturalmente. Dio dispone quindi alla crescita della carità con due grazie: il distacco dalle cose della terra e quindi più aumenta la carità, più diminuisce la cupidigia; la sopportazione delle avversità, infatti come il vento spegne un cerino, ma ravviva il fuoco, così le contrarietà spengono l’amore affievolito, ma ravvivano l’amore grande!
Sulla domanda con quali atti aumenta la carità i teologi sono molto divisi. È verità di fede che qualsiasi atto di carità, anche se debole, è meritorio davanti a Dio. È certo poi ciò dice san Tommaso, anche se non tutti condividono, per cui di fatto l’aumento della carità avviene solo quando si compie un atto d’amore più intenso. Detto ciò Tommaso poi dice che gli atti di più debole intensità predispongono all’aumento, mentre per Gregorio, Agostino e Bernardo non progredire voleva semplicemente dire regredire. 
Viene poi da domandarsi fino a qual limite può crescere la carità, ma non essendocene né nella carità stessa, visto che è partecipazione dello Spirito Santo, né nella causa efficiente che è Dio e neanche nel soggetto che è la volontà umana, essa può crescere infinitamente.
La perfezione della carità
Quale perfezione può raggiungere la carità. La perfezione della carità può essere intesa in due modi:
da parte dell’oggetto amato essa è perfetta quando esso è amato quanto è amabile, ma essendo Dio infinitamente amabile e la creatura finita, nessuna creatura può amarlo infinitamente e quindi in questo senso è perfetta solo la carità con cui Dio ama se stesso;
da parte del soggetto che ama invece la carità è perfetta quando esso ama quanto gli è possibile amare e ciò si può verificare in tre modi:
✓ quando tutto il cuore dell’uomo è continuamente concentrato in Dio e ciò però è possibile solo in Paradiso;
✓ quando l’uomo impiega ogni sua capacità nel tendere a Dio e alle cose divine dimenticando tutto il resto, per quanto glielo permettono le necessità della vita presente e ciò è però possibile solo ai monaci, a coloro che lasciano il mondo;
✓ quando l’uomo mette abitualmente tutto il suo cuore in Dio in modo che non pensa a nulla che sia contrario all’amore divino e questo è possibile a tutti.
I gradi della carità nelle anime. Come nella fede anche nella carità il progresso ha tre tappe: 
1) nascita e nutrimento della carità (principianti), in cui si ha il dovere di allontanarsi dal peccato e di resistere alle sue conseguenze che lo muovono contro la carità;
2) terminato il nutrimento, irrobustimento della carità (proficienti), che avviene con l’avanzare nel bene e a far crescere la carità;
3) terminato l’irrobustimento, perfezionamento della carità (perfetti), tendendo di continuo all’unione con Dio e di godere di lui, desiderando di morire per essere con Cristo.
Man mano che la crescita procede essa diventa più intensa, infatti come la caduta dei corpi è più rapida alla fine così coloro che sono in grazia, tanto più si avvicinano al fine, tanto più desiderano crescere, si assiste ad un’accelerazione nell’aumento della carità. Ciò ben si lega al detto agostiniano per cui:«il mio peso è il mio amore, e dovunque io vada, da questo vi sono condotto». Il mezzo più potente per crescere è comunque il conformare la propria volontà con quella di Dio.
Se la carità possa diminuire
Essendo la carità frutto dell’azione di Dio e non di atti umani, se anche cessano gli atti di carità, ma questa cessazione non è peccaminosa (ad es. il caso di chi è bloccato a letto in stato vegetativo), la carità non diminuisce e tanto meno si corrompe. Solo Dio ed il peccato possono far diminuire o cessare la carità, ma essendo i doni di Dio irrevocabili, Dio permette la carità da parte dell’uomo solo a motivo del peccato, ma non di qualsiasi peccato, ma solo dei peccati mortali perchè il peccato veniale non è un atto contro Dio o contro la carità e poi perché vuol dire che una serie di peccati veniali potrebbe avere il risultato di un peccato mortale e ciò è senza senso! Certo il peccato veniale comunque può predisporre alla perdita della carità perché le fa perdere vigore e genera inclinazioni cattive che possono disporre al peccato mortale. A rigore di termini quindi la carità non può diminuire, si può solo perdere.
La carità si perde solo col peccato mortale
E ciò è ricordato dal profeta Ezechiele (Ez 18,26) e dal Concilio di Trento (DS 1577) e la motivazione teologica è che ogni realtà viene cancellata dal suo contrario ed essendo la carità essenzialmente amicizia, essa cessa quando gli si voltano le spalle, facendo ciò che è contrario alla sua volontà. E basta anche un solo peccato mortale (Gc 2,13) e la motivazione teologica di ciò sta nel fatto che:«Dio nell’infusione e nella conservazione della carità è paragonabile al solo nell’atto di illuminare l’aria, perciò come cessa la luce nell’aria appena s’interpone un ostacolo alla illuminazione del sole, così cessa di essere nell’anima la carità appena si mette un ostacolo all’infusione di essa da parte di Dio». Anche una volta persa la carità ed i suoi meriti, essi possono essere comunque ricuperati attraverso la penitenza intesa sia come virtù che come sacramento.
Senza la carità l’uomo non merita nulla? 
Premesso che è di fede che senza la grazia non si può meritare soprannaturalmente (DS 376) ci si chiede se le opere buone compiute dalla grazia possano meritare qualcosa. Già nell’AT ci sono almeno tre episodi in cui Dio ricompensa un pagano: Raab la prostituta, Nabucodonosor per l’impresa compiuta contro Tiro e le levatrici egiziane. Agostino dice che Dio concesse ai romani un grande impero come ricompensa temporale delle loro virtù e che:«se Dio non esaudisse i peccatori, inutilmente il pubblicano avrebbe detto: Signore, abbi pietà di me peccatore», mentre il Crisostomo dice che:«chiunque domanda riceve, vale a dire, sia egli giusto o peccatore» e memore di ciò Tommaso commenta:«Dio ascolta la preghiera del peccatore … per pura misericordia, purché siano rispettate le condizioni ricordate e cioè che uno chieda per sé, cose necessarie alla salvezza e le chieda con pietà e perseveranza». Santa Caterina disse:«Il bene, senza la carità, non vale per la vita eterna, ma … poiché Dio non vuole che quel bene passi senza rimunerazione lo rimunera alcune volte concedendogli il tempo per convertirsi, talvolta ponendo il peccatore nel cuore dei servi di Dio esortandoli a pregare per lui … oppure lo rimunera in cose temporali, quando il peccatore non si dispone, per sua colpa, a ricevere le grazie spirituali» 

L’OGGETTO DELLA CARITÀ
La carità essendo partecipazione dell’amore con cui Dio ama se stesso ha per oggetto Dio, ma poiché Dio in se stesso ama anche noi, il nostro prossimo e le creature, la carità si estende a tutte le realtà che Dio ama.
La carità verso Dio
Esistenza e valore del precetto della carità. La prima si mutua già nell’AT (Dt 10,12-13) e poi si ritrova nel NT (Mt 22,36-38), ma che senso ha comandare di amare? La vita divina è posseduta dall’uomo in maniera conforme alla sua natura ragionevole e quindi si richiede che egli viva questa vita nuova consapevolmente e ciò avviene tematizzandola, rendendola cioè termine esplicito delle proprie azioni ed obbligandosi a perseguirla con una legge. Dall’altra poi questo comando rappresenta la grandezza dell’amore di Dio verso l’uomo perché non solo gli consente di amarlo e di essere a lui unito, ma addirittura glielo comanda, fa di tutto cioè perché ciò avvenga!
Detto ciò per adempiere questo comandamento esistono varie maniere di amare Dio:
Amore penitente e questo per due motivi:
✓ Dolendoci di averlo offeso ci proponeIamo di non tornare più a disgustarlo e avvertiamo la totale gratuità della sua amicizia e la nostra indegnità. Lo stesso giudizio finale che mostrerà tutti i nostri peccati, non sarà per svergognarci, ma per esaltare la misericordia di Dio che li ha lavati tutti! Nessuno ama sinceramente se non fa sincera penitenza, perché più amiamo una persona più ci dispiace offenderla.
✓ Esso è partecipazione dell’amore di Cristo che ha provato grandissimo dolore, contrizione, per il peccato, dice infatti Tommaso:«il suo dolore superò tutto il dolore di qualsiasi penitente, sia perché derivava da una maggiore carità e sapienza, che direttamente accrescono il dolore,  sia perché soffriva simultaneamente per i peccati di tutti» e per questo l’amore penitente fa riferimento ai propri peccati e a quelli di tutti, spingendo a completare nella propria carne ciò che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa.
Amore di conformità alla volontà di Dio che S. Ignazio di Loyola chiama “santa indifferenza”, conseguenza dell’idem velle idem nolle proprio dell’amicizia, che si esprime in due gradi: come rassegnazione e come santo abbandono alla volontà di Dio. Ma come discernere la volontà di Dio? I teologi parlano di due volontà:
✓ Volontà significata da Dio e cioè i segni della volontà di Dio come i precetti, le proibizioni, lo spirito dei consigli evangelici, gli avvenimenti voluti o permessi da Dio. Questa volontà appartiene al mondo dell’obbedienza a Dio ed è ad essa che ci riferiamo quando nel Padre Nostro diciamo “sia fatta la tua volontà”.
✓ Volontà di beneplacito che è l’atto interno della volontà di Dio non ancora manifestato né fatto conoscere e da cui dipende l’avvenire ancora incerto per noi. Questa volontà appartiene al mondo dell’abbandono nelle mani di Dio. 
Amore di benevolenza che porta al desiderio ardente che egli possa abitare nel cuore degli uomini ed essere amato e glorificato dal prossimo e che ci spinge a farci servi di tutti.
Amore di amicizia, fondato sul precedente a cui aggiunge la vicendevole corrispondenza e comunicazione di beni e si esprime nel godere di essere suoi amici e di stare con Lui.
Amore di compiacenza che è il primo sentimento che si prova di fronte al bene e che è la “madre e la nutrice” della carità, secondo le parole di San Francesco di Sales. La carità infatti prova grande senso di piacere per la grandezza di Di e per la sua gloria immensa in maniera purissima e disinteressata perché il rallegrarsi non è in vista di alcun vantaggio. Questo tipo di amore non può essere uno stato abituale (DS 2351) perché non possiamo, ma solo come atto isolato e transitorio nel modo sperimentato da tutti i santi
La carità verso il prossimo
Se l’esigenza di amare il prossimo si deduce già dal fatto che siamo tutti accumunati dalla medesima sorte, il motivo formale della carità verso il prossimo è comunque “per Dio” o “in Gesù Cristo”, perché come diceva san Gregorio:«l’amore di Dio genera l’amore del prossimo e l’amore del prossimo conserva l’amore di Dio», perciò amare il prossimo di amore soprannaturale è volere che egli aderisca e sia fisso in Dio come nel suo fine ultimo e lo possegga, lo ami e lo lodi in eterno, perché essendo Dio in se stesso infinitamente buono  e perfetto è quindi amabile e meritevole di essere amato in eterno, di essere lodato e glorificato da tutti. Quindi quando si è perduto di vista Dio, la carità non può più esistere o almeno non agisce più come tale in quegli atti che si compiono a favore del prossimo. Nel caso di Mt 25,40 quando Gesù dice:«l’avete fatto a me» può significare: un’opera buona compiuta da un peccatore che si è lasciato disporre dalla grazia preveniente a compiere questa azione oppure un’azione compiuta con la carità senza sapere di averla oppure un’azione compiuta da chi ha l’abito della carità perché è in grazia. Amare di carità il prossimo significa quindi donargli Dio, la sua Grazia e tutti quei beni di ordine naturale e soprannaturale che sono finalizzati a Lui e per prossimo si intendono tutti coloro che sono capaci di gloria eterna.
La esistenza del precetto della carità verso il prossimo è presente sia nell’AT (Lv 19,18) che nel NT (Mt e Gv). La novità del NT è che questo amore deve essere come quello che Gesù ha avuto per noi e come quello che intercorre da sempre tra Lui ed il Padre e questo è possibile solo perché Lui si è fatto uomo! In entrambi poi è presente (come abbozzo nell’AT e più estesamente nel NT) un’estensione del precetto, perché mostra che la carità abbraccia tutti:
▪ L’amore per i peccatori, perché ogni uomo rimane capace di gloria eterna e di pentimento per i propri peccati, per questo deve essere amato di carità:«non già volendo ciò che essi vogliono o godendo delle cose di cui essi godono, ma per far loro volere quello che noi vogliamo e godere le cose di cui godiamo» e cioè l’amicizia con Dio.
▪ L’amore per i nemici che ci hanno fatto un’ingiuria, non hanno chiesto perdono e/o ci odiano e anche qui il motivo è perché Dio continua ad amarli, è il buon pastore che continua a cercarli, è il padre che aspetta il figliol prodigo, e quindi i nemici, malgrado tutto, restano nostri fratelli e se riusciamo ad amare loro di carità ci avviciniamo a Gesù sulla croce quando ha detto:«Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,14) ed a tutto ciò che lui ha detto e fatto in merito a questa tematica. 
▪ Ma cosa richiede l’amore per i nemici? Essendo di carità e perciò soprannaturale non necessariamente deve esprimersi anche per mezzo di emozioni, è sufficiente che sia presente nella volontà e si manifesti all’esterno almeno con i seguenti comportamenti: 
deporre l’odio, perché è contro la carità augurare il male; 
deporre ogni desiderio di vendetta e cioè il castigo voluto arbitrariamente per vendicarsi che si distingue dal castigo voluto per il bene del colpevole e della società, perciò come dice il Cristostomo:«essere pazienti con le ingiurie proprie è degno di lode, ma passare sopra alle ingiustizie contro Dio (e Tommaso aggiunge quelle contro il prossimo) è il colmo dell’empietà»;
prestare ordinariamente i segni comuni di amicizia e di affetto e in determinate circorstanze anche segni speciali;
procurare la ricononciliazione entro il più breve tempo possibile, se però quella interiore va fatta subito, quella esterna a volte è controproducente farla subito; certo se questo è l’unico modo per far convertire il peccatore allora va fatta subito: l’offeso quindi è sempre obbligato a dare il perdono a chi glielo domanda in maniera diretta o indiretta, pecca contro la carità chi non lo concede e gli è tolta la possibilità di essere perdonato da Dio secondo l’insegnamento del Padre Nostro 
La carità verso se stessi e le creature
Amare di carità noi stessi è un dovere, perché dobbiamo desiderare per noi il bene che ci vuole Dio e per i motivi per cui lo vuole. Questo amore soprannaturale riguarda tutto noi stessi e quindi anche il nostro corpo che è opera di Dio e tempio che gli appartiene, ma non in vista dell’autoconservazione, ma tenendo di mira i beni soprannaturali ed eterni (risurrezione, gloria …) È proprio questa carità il motivo ispiratore dell’ascetica cristiana che non è disprezzo del corpo, ma desiderio di beni più alti per lui perché come diceva san Francesco:«Povero corpo mio, perdonami. Però sappi che ti tratto tanto male in questo mondo perché ti voglio tanto bene e voglio che tu sia veramente beato». Con amore di carità vanno poi amate anche le creatutre irragionevoli non perché con esse si possa stabilire un’amicizia, ma perché sono beni che possiamo utilizzare per la gloria di Dio ed il bene del prossimo e come tali vanno rispettati, curati e tutelati
Ordine della carità
1. L’amore per Dio che è infinitamente amabile per se stesso e principio della nostra beatitudine.
2. L’amore per se stessi perché come dice Agostino:«se non sai amare te stesso, come potrai amare veramente il prossimo?» e quindi non è mai lecito commettere il più piccolo peccato con il pretesto di soccorrere spiritualmente il prossimo, ma allo stesso tempo si deve amare di più il bene spirituale del prossimo che non il nostro bene corporale e quindi se lo richiede la salvezza eterna del prossimo si è tenuti a soccorrerlo anche col pericolo della propria vita.
3. L’amore per il consorte o la consorte.
4. L’amore per i genitori.
5. L’amore per i fratelli.
6. L’amore per gli altri parenti.
7. L’amore per tutti gli altri.
Quest’ordine rimarrà anche in patria perché la natura non viene distrutta, ma sublimata dalla gloria.

EFFETTI DELLA CARITÀ
La carità permette all’uomo di amare con il cuore di Dio, portanto la presenza divina dell’anima, fa sperimentare il sentire stesso di Dio e chi ama di carità vive quindi:
• La gioia, che è la soddisfazione che si prova per il possesso del bene amato che essendo Dio non può che essere piena e nel Vangelo numerosissime sono le indicazioni e le situazioni di gioia piena, tanto che è uno degli aspetti caratterizzanti la missione di Gesù: «Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11). Motivo teologico di questa gioia è che l’amicizia con Dio porta al credente tutti i benefici che ha operato il Signore. Caratteristiche di questa gioia sono quindi: 
è fondata su Gesù Cristo, sulla sua presenza, sul suo possesso; 
è per il perdono dei peccati; 
trasfigura perfino le tribolazioni perché fondata sulla fecondità delle sofferenze sopportate per Cristo, tutto quindi va fatto, accettato e sopportato nella gioia, la morale cristiana si esprime nella gioia, è una morale di ottimismo e di vittoria; 
è legata all’esercizio di tutte le virtù teologali, specialmente della speranza; 
i predicatori sono essenzialmente portatori di gioia come gli angeli ai pastori;
dovrebbe essere immutabile perché l’amore di Dio è un bene immutabile, San Tommaso infatti commentando la frase: «Gioite sempre nel Signore» (Fil 4,4) dice che le caratteristiche della gioia cristiana sono che è: retta (avendo per oggetto il vero bene dell’uomo), continua (se non è interrotta dal peccato …), multiforme e moderata (perché spirituale e quindi non si sfoga nelle voluttà);
è necessaria a colui che vuole progredire, perché indirettamente aggiunge perfeziona all’azione e se anche in questo mondo non potrà mai essere perfetta, la storia delle santità mostra che la vita cristiana è vissuta in una letizia crescente che diventa affascinante, contagiosa e motivo di credibilità;
• La pace, che non è un bene qualunque, ma soprannaturale che fluisce dall’unione con Cristo le cui carratteristiche sono: 
É un dono messianico, legato alla persona di Gesù e alla venuta del Regno di Dio, che porta la sicurezza derivante dalla consapevolezza di essere nelle mani di Dio, perciò: «la pace di Cristo è un dono della sua onnipotenza che stabilisce il discepolo nella sicurezza, possesso immanente del cuore fortificato dal vincitore del mondo»;
É frutto dello Spirito Santo che abita nei credenti e implica quindi due tipi di unificazione compiuti dalla carità:
▪ Il coordinamento dei propri appetiti, perché consistendo nell’unione con Dio  e nel rivolgere a lui ogni cosa, porta all’unione con se stessi.
▪ La fusione dei propri appetiti con quelli altrui, frutto dell’amore per il prossimo come noi stessi, che porta a voler compiere la volontà del prossimo come la nostra. La pace ha quindi una dimensione comunitaria perché avendo Cristo abbattuto i muri di separazione (Ef 2,14) i cristiani, purificati e rinforzati dal sangue di Cristo, sono operatori di pace, sempre all’opera nell’abbattere i muri di separazione che vengono alzati.
Viene causata dalla carità in forza della sua stessa natura di amore di Dio e del prossimo e per questo: è l’atto più tipico della carità; è annoverata tra le beatitudini, gli atti di virtù perfetta; è uno dei frutti dello Spirito Santo perché bene finale pieno di dolcezza spirituale. Portare o accogliere la pace in se stessi può infatti comportare un grande sforzo ed una specie di ribellione alle inclinazioni più immediate e quindi è bene ricordarsi delle parole di Tommaso che commentando Fil 4,7 dice: «Poiché il nostro cuore non può essere immunizzato da ogni turbamento che per l’intervento di Dio, è indispensabile che ciò sia prodotto da lui» tanto più uno è santo infatti, tanto meno subisce turbamenti dell’anima.
La discordanza intellettuale intorno a cose opinabili non è ostacolo alla concordia dei cuori, perché le opinioni riguardano l’intelletto.
• La misericordia, che è la compassione del cuore per le miserie altrui per cui uno si sente spinto a soccorrerlo. Si è manifestata per gli uomini in Gesù Cristo che ci ha liberato da ogni male, tanto che per Tommaso: «è necessario trovare la misericordia e la verità in ogni opera di Dio» e quindi se con la carità l’uomo diventa simile a Dio nell’affetto, con la misericordia diventa simile a Dio nell’operare: essa è quindi la più grande virtù di relazione con il prossimo. Questa misericordia si esprime all’esterno con il fare il bene (la beneficenza) a tutti a motivo dell’universalità della carità, ma provvedendo innanzitutto ai più uniti per le circostanze di luogo e di tempo. Tra le più cospicue opere di bene ci sono:
L’elemosina, atto di carità con cui si dà qualcosa per amor di Dio a chi è nella necessità. Essa come ogni atto meritorio coopera all’espiazione dei peccati ed è un dovere per il cristiano, un  precetto che obbliga gravemente e ciò si desume dal rapporto tra le proprie possibilità e le necessità altrui tenendo conto che: «i beni temporali che uno riceve da Dio appartengono a ciascuno in quanto proprietà, ma quanto all’uso non devono essere soltanto suoi, bensì anche degli altri». L’elemosina per essere virtuosa deve essere:
▪ giusta, fatta da chi ha il libero dominio sulla cosa elargita a meno che non si tratti di casi di estrema necessità dove il diritto primario alla destinazione universale dei beni prevale su quello secondario della proprietà privata;
▪ prudente e cioè fatta a veri poveri e non a chi per pigrizia non lavora tanto che la Diachè dice: «la tua elemosina sudi sulla tua mano finchè tu non sappia a chi la devi dare»;
▪ pronta, libera e spontanea;
▪ segreta;
▪ ordinata, mirando cioè alle necessità più grandi ed urgenti;
▪ universale, purchè si tratti di vera necessità e l’aiuto non risulti una cooperazione al compimento del male.
L’apostolato. Come dice il Cristostomo infatti: «non vi è cosa più gradita a Dio che la salute delle anime» e come si legge nelle Fonti Francescane di quando Francesco chiede:«Fratelli, che cosa decidete? Che cosa vi sembra giusto? Che io mi dia tutto all’orazione o che vada attorno a predicare? … Però a favore della predicazione c’è una cosa e sembra che da sola abbia, davanti a Dio, un peso maggiore di tutte le altre ed è che l’Unigenito di Dio è disceso dal sendo del Padre, ha rinnovato il mondo con il suo esempio, parlando agli uomini la Parola di salvezza e ha dato il suo sangue come prezzo per riscattarli … nulla assolutamente riservando per se stesso, ma tutto dispensando generosamente per la nostra salvezza. Ora noi dobbiamo fare tutto, secondo il modello che vediamo risplendere in Lui».
La correzione fraterna e cioè l’aiuto dato per pura carità al prossimo colpevole al fine di allontanarlo dal peccato che si innesta sull’atteggiamento che in nome della solidarietà umana porta a correggere chi sbaglia. Essa è di precetto, come tale induce ad un atto di virtù che è quello di emendare i fratelli, ma non si deve correggere il fratello che sbaglia in qualsiasi luogo e in qualsiasi tempo. Perché si verifichi l’obbligo della correzione fraterna si devono verificare varie condizioni:
▪ la materia deve essere certa e manifesta;
▪ la necessità e cioè che senza correzione non vi può essere miglioramento;
▪ l’utilità e cioè che vi sia speranza di buon esito;
▪ la possibilità e quindi che si possa fare senza grave molestia o pregiudizio di chi corregge;
▪ l’opportunità e quidni nel tempo, nel luogo giusto e nel modo giusto perciò è spesso lecito atttendere tempi migliori.
Sul modo di fare la correzione fraterna poi, essa si faccia con dolcezza, benignità, umiltà e prudenza per non inasprire gli animi. Molte valide poi le specificazioni che Tommaso fa a seconda dei vari casi.

IL DONO DELLA SAPIENZA
Esso porta alla massima espansione la carità e da a tutte le virtù un tocco di perfezione perché essa: 
è una sapida scientia, radice di una conoscenza nuova, permeata di carità amorosa e sperimentale che, sotto l’istinto dello Spirito Santo, porta a conoscere Dio per connaturalità soprannaturale: l’anima acquista dimestichezza con le cose divine e ne prova gusto;
provvede alla rettitudine del giudizio sulle cose divine o su altre cose in base a criteri divini.
Si distingue dalla virtù intellettuale perché viene dall’alto e non si acquista con lo studio. 
Beatitudine attribuita è: «Beati gli operatori di pace perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9). 
I frutti dello Spirito Santo che le sono attribuiti sono i primi tre: amore, gioia e pace. 
I vizi che ostacolano questo dono sono: la stoltezza spirituale, che consiste in una certa ottusità di mente e di cuore che impedisce la conoscenza di Dio per connaturalità; la fatuità, che consiste nell’assoluta mancanza di senso spirituale. 
I mezzi per coltivare il dono della sapienza sono:
sforzarsi di vedere tutte le cose con sguardo di fede;
combattere la sapienza del mondo che è stoltezza e follia davanti a Dio;
impegno a guadagnare l’unica cosa necessaria (cf Lc 10,42);
non attaccarsi alle consolazioni spirituali, ma servirsene per unirsi a Dio.

PECCATI CONTRO LA CARITÀ
Come la carità ha effetti interni ed esterni, così i peccati che le sono contrari sono interni ed esterni, tra quelli interni ci sono:
 L’odio, sentimento per cui si desidera male a qualcuno, ci si rallegra per le sue sventure e ci si rattrista per la sua fortuna. Se di per sé è impossibile odiare Dio, se ce ne si fa una falsa immagine da essa si traggono motivi per odiarlo. Più facile è provare odio per il prossimo. Siccome però la carità desidera però per ogni uomo il massimo dei beni, l’unione con Dio, ne segue che l’odio è peccato (cf 1 Gv), anzi il peggior peccato contro il prossimo per il grave disordine interiore che provoca, anche se non lo è a livello sociale perché spesso rimane solo un sentimento. Se non si deve odiare il prossimo è un dovere odiare l’errore.
 L’invidia, che è una sorta di tristezza o dispiacere per il bene altrui e quindi è un peccato grave, uno dei più vili e ripugnanti, in netto contrasto con il decimo comandamento, anche perché: «è per l’invidia del diavolo che la morte è entrata in questo mondo» (CCC 2538). Siccome essa: «è spesso causata dall’orgoglio; il battezzato si impegnerà a vivere nell’umiltà» (CCC 2540). Mentre nell’odio si prova dispiacere per il bene del prossimo perché lo gratifica, nell’invidia ci si rattrista perché lo si considera un male per noi, è facile però passare dall’invidia all’odio. Essa non va confusa con la legittima tristezza di veder trionfare il male, né con la legittima emulazione nelle virtù e nelle buone qualità. È un vizio capitale che nasce dalla superbia e cioè dall’appetito disordinato della propria eccellenza e genera odio, mormorazione, diffamazione, gusto delle sventure altrui e dispiacere della sua fortuna. Particolarmente grave è l’invidia della grazia altrui che nella tradizione catechistica viene annoverata tra i peccati contro lo Spirito Santo.
 L’accidia, l’indolenza, il senso di noia o pigrizia spirituale che si prova nelle cose riguardanti Dio e si esprime nella tiepidezza (cf Ap 3,15-16) che porta a trattare le cose dello spirito con negligenza, ad abbreviarle, ad ometterle. È uno stato di anemia spirituale nel quale poco per volta si risvegliano tutte le tendenze cattive ed è quindi un vizio capitale all’origine di altri vizi quali: la malizia, il rancore, la pusillanimità di fornte al dovere da compiere, lo scoraggiamento ed il torpore spirituale fino all’oblio dei precetti, la dissipazione dello spirito e la ricerca di ciò che è proibito che poco per volta rendono ottusa l’intelligenza e debole la volontà. É diversa dall’aridità spirituale che costituisce invece un momento di prova voluto da Dio per distaccare l’anima dai piaceri spirituali e per farla aderire in maniera purissima alla sua volontà. 
Tra quelli esterni che offendono il bene comune e toccano direttamente la giustizia: 
 La discordia, il dissenso cioè su ciò che riguarda il bene di Dio e del prossimo. Essa non ha per oggetto la divergenza delle opinioni, ma delle volontà. Nasce un disordinato amore di se stessi e dalla vanagloria. 
 La contesa e la rissa, il contrasto non di volontà, ma di parole e fatti. 
 Lo scisma, volontaria separazione dall’unità della Chiesa, mantenendo la fede. Peccato gravissimo contro la pace della Chiesa che mina anche l’unità della fede. Gli scismatici mantengono il potere d’ordine, ma non di giurisdizione. 
 Lo scandalo, tutto ciò che concorre a procurare occasione di peccato. Può essere: 
attivo, perché dato e che a sua volta può essere:
▪ diretto, se induce positivamente al peccato e che può essere:
• diabolico, se agisce per offendere Dio e spiritualmente il prossimo
• passionale, se agisce per soddisfare le proprie passioni
▪ indiretto, se induce a peccare, ma non necessariamente
passivo, perché subito e che a sua volta può essere:
▪ realmente occasionato, se conseguenza di un vero scandalo attivo;
▪ falsamente occasionato, se conseguenza di un’azione buona o soggettivamente giusta.
Si noti che può essere scandalizzato solo un debole nella fede, non uno maturo. Tutto ciò che viene omesso per carità verso questi, non mancherà di essere ricompensato da Dio.
Chi da scandalo è ritenuto a riparare con la buona condotta, ma a volte è richiesta la trattazione e se lo scandalo è pubblico, la riparazione deve essere pubblica.

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